«La maggior parte delle donne che ci hanno chiamato hanno raccontato di aver vissuto questa scoperta improvvisa come una violenza tale da riacutizzare l'esperienza dell'aborto terapeutico e, soprattutto, da trasmettere loro la netta sensazione di non avere alcun potere sulla propria vita ma di vivere in una società nella quale sono le istituzioni ad arrogarsi la facoltà di decidere per conto loro». Elisa Ercoli, presidente dell'associazione "Differenza Donna", si sta riferendo alle tante donne che, dopo essersi sottoposte ad aborto terapeutico, hanno scoperto che il feto era stato seppellito nel cimitero Flaminio di Roma – nel cosiddetto Giardino degli Angeli – e il loro nome e cognome affisso su una croce a loro insaputa. Da quando, martedì scorso, una ragazza ha raccontato l'accaduto su Facebook, oltre cento segnalazioni sono pervenute all'indirizzo dell'associazione, che ha deciso di intraprendere, attraverso l'esposto presentato dall'avvocata Ilaria Boiano, specializzata nella difesa dei diritti delle donne, azioni legali al fine di poter fare piena chiarezza sulla vicenda. Ercoli, quanto venuto recentemente alla luce rappresenta una violazione per le donne loro malgrado coinvolte? L'aborto terapeutico è previsto dalla legge 194 del 1978 e rientra nella libera scelta delle donne, mentre invece, in questi casi, si è attuata un'esposizione pubblica di coloro che vi hanno aderito. Si tratta di una violazione gravissima. Molte donne che ci hanno chiamato, inoltre, non si riconoscono nel rituale cattolico, dichiarando di essere atee o appartenenti ad altri culti religiosi, e hanno quindi subìto l'ulteriore violazione di non essere rispettate nel proprio pensiero e nel proprio credo.   Si tratta di casi che riguardano esclusivamente Roma o presentano un'estensione più ampia? La maggior parte dei casi riguardano Roma; per quanto concerne gli altri, attendiamo conferma in seguito agli opportuni sopralluoghi da effettuarsi nei cimiteri. L'AMA ha precisato in una nota di eseguire solo le disposizioni degli ospedali e che «in assenza di un nome assegnato al feto, deve riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura da parte di chi la cerca». È corretto? Al di là dell'eventuale correttezza o meno del comportamento dell'AMA (Azienda Municipale Ambiente) – su cui noi, come «Differenza Donna», non abbiamo alcuna intenzione di disquisire – ci limitiamo a evidenziare che indicare il nome e il cognome di una donna che è stata sottoposta a un aborto terapeutico costituisce una serie di violazioni gravissime. Proprio per questo, venerdì scorso abbiamo depositato un esposto alla Procura della Repubblica, in cui abbiamo raccontato i fatti e ci aspettiamo che l'autorità giudiziaria determini quali reati siano stati compiuti e chi siano i responsabili. Pensa che negli ospedali sussistano tuttora molte resistenze ad operare l'aborto terapeutico? La prima e più importante resistenza è rappresentata dall'esiguo numero di medici e operatori socio-sanitari che si occupano di interruzione volontaria della gravidanza e di aborti terapeutici. Un numero talmente esiguo da rendere difficile perfino l'accesso alla terapia. Sappiamo bene che le ginecologhe e gli operatori del personale medico ospedaliero che indirizzano la propria carriera in tale ambito sono in realtà pochissimi e, oltretutto, invece di veder riconosciuto il proprio valore, vengono ghettizzati per via della loro attività. Alcune donne hanno raccontato di aver firmato dei fogli, durante l'aborto terapeutico, fornendo il loro consenso alla sepoltura del feto senza esserne pienamente consapevoli. Le risulta? La legge norma che per la richiesta di sepoltura la madre debba firmare dei moduli specifici, addirittura di proprio pugno. Faremo richiesta di accesso agli atti, per renderci conto di cosa è realmente accaduto e cosa esse abbiano firmato. Per alcuni casi, sappiamo per certo che era stato loro chiesto se desiderassero la sepoltura del feto e che queste avessero espresso un dissenso. Anche chi ha negato esplicitamente il proprio consenso si è ritrovato con una croce con il proprio nome e cognome sopra. La politica sta prendendo provvedimenti al riguardo? Alcune deputate del Parlamento hanno scritto pubblicamente di essere solidali nei confronti di chi ha subito questa grave violazione, mentre la Regione Lazio, nella persona della consigliera Marta Bonafoni, ha chiesto un'interrogazione in merito. Penso, tuttavia, che saranno intraprese iniziative efficaci solo nel momento in cui avremo accertato fino in fondo come stiano realmente le cose e da quanti anni vada avanti questa situazione. Abbiamo rinvenuto delle croci che coprono il periodo compreso tra il 2012 e il 2020, ma abbiamo motivo di supporre che la situazione sia di molto precedente, in quanto alcune donne che ci hanno interpellato hanno trovato il loro nome essendo state sottoposte a un aborto terapeutico nel 2005. Sono almeno quindici anni, quindi, che va avanti questa procedura – una procedura estremamente strutturata e sistematica – e da qualche parte esisterà sicuramente un corpus di delibere e atti ufficiali che, una volta trovati, permetteranno di accertare le responsabilità di chi vi è a vario titolo coinvolto.