Dunque siamo tornati al punto di partenza, siamo tornati a Mattarella. E quel che rimane di questa vicenda sono le ceneri di leader e partiti che hanno avuto mesi e mesi di tempo per costruire un’alternativa per Quirinale e Palazzo Chigi, salvo poi voltarsi indietro e decidere di congelare l’esistente. Ma questo è l’esatto opposto della politica. La politica è visione, è costruzione del futuro e non cristallizzazione del passato. E ora nessuno si azzardi a dire che in realtà Mattarella sperasse da tempo in questo finale. Il capo dello Stato è un giurista, un cultore della nostra Carta e sa benissimo che rompere la prassi del settennato significa consolidare (è già accaduto con Napolitano) un precedente assai delicato: di qui i suoi scrupoli che superano di gran lunga le sue ambizioni. Ma è bene essere chiari: quattordici anni di presidenza sono tanti, sono un regno edificato sulla forzatura di quella prassi costituzionale. Certo, se proprio dobbiamo avere un “re” è bene che sia Mattarella, perché il Presidente ha un rispetto sacrale del diritto e della Costituzione, ma si tratta comunque di un’anomalia che avrà ripercussioni su un sistema di partiti già al collasso. Insomma, la candidatura di Mattarella è una buona notizia per il Paese ma un pessimo segnale per la nostra politica. Del resto lo spiegò bene l’allora presidente Giorgio Napolitano quando, in occasione del discorso di insediamento per il suo secondo mandato, disse ai partiti che lo avevano implorato di tornare che la sua rielezione era il segno della loro sconfitta. «Di fronte alla gravissima crisi istituzionale – dichiarò Napolitano di fronte a un Parlamento ammutolito – hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi, e strumentalismi». E qui sembra riecheggiare la voce di don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia». E poi ancora: «Ecco cosa ha condannato alla sterilità o a esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento». Parole dure e drammaticamente attuali. La sconfitta di allora, oggi si ripete e si aggrava. E ora nessuno provi a intestarsi la vittoria del gesto di Mattarella. Non ci provi Enrico Letta, incapace, in questi mesi, di creare un’alternativa politica; non ci provi Salvini, che per giorni ha portato a spasso opinione pubblica e giornalisti bruciando candidati uno dietro l’altro e mandando allo sbaraglio persino la seconda carica dello Stato e il capo dei servizi segreti; e non ci provino né Conte né Di Maio, che hanno giocato uno contro l’altro ballando sulle ceneri di un movimento allo sbando e la cui unica preoccupazione era quella di tirare avanti fino a settembre per assicurarsi la pensione: hai capito gli anticasta? E poi non ci provino né Forza Italia né Renzi, prigionieri di una visione personalistica e autistica della politica e incapaci, ormai, di immaginare un futuro per sé e per il Paese. Non ci provi neanche Meloni – ma lei in fin dei conti non ci proverà – il cui unico scopo era minare il governo Draghi per andare al voto e intascare il prima possibile quello che i sondaggi le promettono da mesi. Insomma, nessuno pensi di sfruttare il sacrificio del presidente Mattarella per trarne un vantaggio di parte, anche perché il gesto del Capo dello Stato si fonda sull’autonomia e sulla indipendenza e chiunque provasse a mettere il timbro sporcherebbe quella scelta alta, disinteressata, indipendente. Nessuno, dunque, provi a intestarsi questa vittoria perché è una sconfitta per tutti. Tanti auguri presidente Mattarella, sappiamo di essere in ottime mani.