«Certo, casi di ingiustizia legati all’applicazione delle misure antimafia vanno evitati. E lì dove si valorizza il contraddittorio con la difesa, è possibile giungere a conclusioni più precise, a cominciare dal coinvolgimento di un imprenditore nell’organizzazione mafiosa. Ancora: l’evoluzione che va verso una sempre più attenta affermazione dello Stato di diritto è attestata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma attenti. Perché passare da un’impostazione evolutiva a una rinuncia al doppio binario previsto dal codice antimafia non trova alcuna giustificazione. Le organizzazioni criminali sono tuttora molto pericolose anche se vestono abiti diversi, quelli dell’intermediario irriconoscibile a un primo sguardo. Vuol dire che il quadro è diventato più complesso, non certo più tranquillizzante». Federico Cafiero de Raho è da oltre quattro anni procuratore nazionale antimafia. Risponde qui all’anacronismo che accademia e avvocatura scorgono nella legislazione antimafia del nostro paese, basata sul cardine dell’eccezionalismo. Ma il vertice della Dna dà un primo pur generale giudizio anche sulla proposta di legge, a prima firma Gabriella Giammanco, che oggi Forza Italia presenterà in Senato per rivedere le misure di prevenzione ed evitare così ingiustizie come quelle subite da Pietro Cavallotti, il giovane imprenditore di Belmonte, nel Palermitano, che oggi interverrà alla presentazione di Palazzo Madama.

Prima di arrivare alle proposte di legge, Procuratore, si può dire che lo stato d’eccezione delle norme antimafia può cominciare a essere ridimensionato?

Partiamo da un dato. La mafia non è vinta, non è scomparsa: si è riprodotta. Indossa il vestito dell’impresa, si è incistata nell’economia legale. Si radica non solo nel Nord Italia ma anche lontano dall’Europa, in società nelle quali è in apparenza impossibile scorgere il segno dell’origine criminale.

Il salto di qualità richiede un contrasto diverso?

Sì, un contrasto non certo attenuato: gli interessi economici dell’organizzazione criminale non sono più affidati a persone di famiglia, come negli anni Settanta, o a figure comunque riconducibili, ma a soggetti lontani, individuati con strategia. E solo indagini molto complesse, basate per esempio sulla decrittazione di messaggi in codice, consentono di ricostruire trame del genere. Intuire un legame fra l’amministratore di una società, magari operativa all’estero, e l’organizzazione mafiosa è così difficile che solo chi conosce quello specifico settore d’impresa può cogliere dettagli in grado di innescare un allarme. Ecco perché non va affatto dismessa la legislazione antimafia: va casomai resa più avanzata.

Ma neppure si può ignorare la sconfitta della vecchia mafia stragista.

Che con la propria strategia si è condannata all’ergastolo. Ma la mafia attuale, con la sua strategia della sommersione, è insidiosissima. Si manifesta nella sua pervasività in particolare al Nord, dove l’intimidazione attuata per insediarsi nel tessuto economico è spesso sottile. Cito un’intercettazione in cui un emissario di Antonio Piromalli convinse il titolare di un villaggio turistico ad accordarsi con imprese della ’ndrangheta per l’affidamento dei sevizi di pulizia e ristorazione. Venne utilizzata una frase brevissima: “Noi siamo i garanti della Calabria”. L’imprenditore capì subito. Passò in un istante dal “no grazie” alla ricerca di una via per siglare un patto. Ora sa qual è un frutto avvelenato della pandemia?

Siamo allo sciacallaggio delle mafie?

Il paradigma è l’imprenditore che non riesce ad accedere al credito e si rivolge al prestito mafioso. L’organizzazione criminale entra in quel modo nell’attività ma senza neppure ricorrere ad avvicendamenti nella compagine aziendale. Semplicemente controlla il titolare che rimane dov’è, con i mafiosi che lo utilizzano per reinvestire i capitali. E qui siamo anche al nodo delle proposte di legge in arrivo in Parlamento.

Oggi la senatrice FI Giammanco (FI) ne illustra una che modifica le misure di prevenzione patrimoniali.

Parto da un presupposto: mantenere il doppio binario resta tuttora necessario. Ad esempio, se c’è una sproporzione fra i valori di un’azienda e la effettiva capacità reddituale, non si può smettere di cogliervi il segnale di un inquinamento mafioso, a meno che la sproporzione non si giustifichi in altro modo.

Casi di ingiustizia, nei sequestri antimafia, ce ne sono stati, e a volte assai gravi: li si può evitare?

Certamente. Non si può abbattere però la legislazione attuale. Lì dive ci sono guasti è necessario intervenire, ma si tenga presente che i procedimenti di prevenzione sono giurisdizionalizzati a tal punto che in Europa sono considerati un modello. D’altronde sempre più spesso il traffico di stupefacenti segue rotte settentrionali lontane dal Mediterraneo, e la sinergia fra squadre investigative di paesi diversi è indispensabile.

Resta il rischio dei sequestri in danno di imprenditori di cui in parallelo si accerta l’innocenza nel processo penale.

Ripeto, bisogna intervenire affinché non si perpetuino ingiustizie, ma con l’ascolto, ai tavoli tecnici, di operatori della giustizia in grado di suggerire soluzioni che non compromettano l’efficacia degli strumenti.

A cosa si riferisce in particolare?

Si può trarre spunto da un aspetto della proposta di legge che sarà presentata nelle prossime ore in Senato e che, anche se si attiva un controllo giudiziario, consente al titolare dell’impresa di proseguire nella conduzione dell’attività: così però c’è il rischio di un’alterazione documentale che comprometta i riscontri con cui si può verificare la partecipazione della mafia. Possiamo pensare a correttivi, a tutele in grado di assicurare la costante affermazione dello stato di diritto, ma va nello stesso tempo tenuta in conto la capacità delle organizzazioni criminali nell’individuare consulenti in grado di manipolare i segni dell’inquinamento. Non condivido inoltre, nel testo in arrivo al Senato, la sovrapposizione quasi assoluta fra il sistema di prevenzione e le regole processuali penali in materia di prova.

In cui però la prova è accertata nel contraddittorio.

Nelle proposte di cui si leggono anticipazioni si propone che alla base della misura di prevenzione debbano necessariamente esserci indizi gravi, precisi e concordanti. È la stessa definizione contenuta nelle norme del processo penale rispetto alla valutazione della prova. Ma se facciamo coincidere la qualità degli indizi necessari alle misure di prevenzione, che devono anticipare la risposta nel caso di pericolosità, con i presupposti in grado di portare alla condanna nel processo penale, la prevenzione non esiste più. E per paradosso, la proposta di legge suggerisce di rispondere a indizi gravi, precisi e concordanti non con un procedimento penale ma con la procedura di prevenzione che determina la sorveglianza speciale.

C’è però da scongiurare il rischio che il dissequestro seguito a un accertamento dell’innocenza del titolare arrivi quando ormai l’azienda è compromessa.

Assolutamente, ma per farlo si deve sempre verificare la capacità di un’azienda di reggersi nel quadro dell’economia legale. Servono valutazioni prudenti, il che vuol dire, naturalmente, anche acquisire indizi tali da desumere le certezza che quell’impresa possa essere riconducibile al contesto mafioso. È possibile farlo anche attraverso l’ulteriore riconoscimento del contraddittorio con la difesa, ed è quanto avviene in virtù delle ultime modifiche alle norme sulle interdittive decisive dai prefetti, che valorizzano appunto il contraddittorio in modo da modulare le misure in quei casi in cui si è di fronte solo a una agevolazione occasionale dell’impresa da parte della mafia.

È possibile una regolazione analoga anche nel procedimento di prevenzione, cioè nei sequestri?

È il principio a cui obbedisce il ricorso al controllo giudiziario, che è tanto più efficace e privo di effetti critici per l’azienda quanto più l’attività di prevenzione si svolge in tempi rapidi. Valorizzare la partecipazione della difesa, anche nelle misure di prevenzione, può consentire di raggiungere determinazioni più precise. Anche le novità sulle interdittive dimostrano come un’evoluzione simile sia in atto, ed è anche apprezzata dalla Cedu. Evitare le ingiustizie è un obiettivo a cui non si deve derogare, ma neppure si può recedere dal contrasto delle mafie, sempre più pervasive, solo perché si presentano con un abito diverso dal passato.