L’attenzione sul carcere si esprime in modo ambivalente sull’onda dell’ultimo episodio di cronaca. Il suicidio o la morte in carcere di un detenuto malato evocano compassione, ma basta un’evasione o la commissione di un reato da parte di condannato ammesso a misura alternativa perché si passi all’opposto del pendolo. Vi sono parole d’ordine strumentalizzate e distorte come quella della “certezza della pena”, che non vuol dire affatto “buttiamo le chiavi della cella”. Ma non sono mancati in questo inizio di anno 2022 interventi che hanno cercato di riportare alla razionalità. Un dato anzitutto da leggere come positivo è il confronto tra i 61.000 detenuti di inizio 2020 e gli attuali circa 54.000. Hanno giocato le misure adottate per il controllo della pandemia, ma anche una maggiore attenzione al ricorso alla custodia cautelare. Nessuno può portare dati a sostenere che questa diminuzione del ricorso al carcere abbia avuto come conseguenza un aumento della criminalità. Del sovraffollamento è vittima la popolazione detenuta, ma il personale penitenziario, insufficiente di numero, deve confrontarsi con il clima di tensione che ne deriva.

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Il carcere, la privazione della libertà come pena, nella storia dell’umanità ha costituito un “progresso” rispetto alle pene corporali e alla pena di morte. Non ne possiamo fare a meno, ma ne conosciamo ormai da tempi gli aspetti negativi di disumanizzazione e desocializzazione. Rendere più umana l’esecuzione della pena detentiva e limitarne l’applicazione in favore di misure alternative non è solo adesione al “senso di umanità” evocato nell’art 27 della Costituzione, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza. Da quando nel 1975 la legge di riforma penitenziaria ha rotto la rigidità dell’esecuzione della pena, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ha dimostrato efficacia nella previsione della recidiva. Delle positive prospettive aperte da quelle riforme sono stato testimone nella funzione di magistrato di sorveglianza a Milano fino al 1981. Le statistiche di oltre quarant’anni sono inoppugnabili, ma non se ne trae la conseguenza di un maggiore impegno in quella direzione. Le innovative proposte elaborate nel 2018 dalla Commissione Giostra sono state tenute in un limbo fino al termine della legislatura. Una rinnovata attenzione è stata mostrata dall’attuale governo e vi è da augurarsi che questa volta si traduca in provvedimenti concreti. Si possono indicare tre prospettive di intervento.

Primo. La Camera ha recentemente approvato un ordine del giorno con il quale impegna il governo a garantire la copertura delle vacanze del personale degli Uffici dell’esecuzione penale esterna e ad aumentare le piante organiche. Gli Uepe sono ben noti agli operatori del settore, ma forse meno all’opinione pubblica generale che tende a conoscere, oltre ai direttori, solo le due categorie dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria. L’abbandono della vecchia rigida denominazione “agenti di custodia” non è solo formale perché vuole indicare che anche il personale che assicura ordine e sicurezza negli istituti deve avere la prospettiva della finalità rieducativa della pena. Ma è sul personale specializzato degli Uffici dell’esecuzione penale esterna che grava il compito di gestire l’ “apertura” del carcere, utilizzando anche la collaborazione degli enti locali. L’ammissione alle misure alternative e la eventuale revoca sono competenza e responsabilità della magistratura di sorveglianza, la quale può operare solo con il pieno supporto del personale Uepe. Coprire immediatamente le vacanze è un primo passo ma occorre un aumento degli organici. Ora troppo spesso la magistratura di sorveglianza non è in grado di decidere tempestivamente sulle istanze di ammissione a misure alternative per i ritardi nelle relazioni degli Uepe, dovuti al sovraccarico.

Secondo. Incrementare le possibilità di lavoro per chi in carcere ci deve rimanere. Iniziative innovative in diversi istituti mostrano che può trattarsi di lavori di specializzazione e di qualità. I destinatari sono ovviamente in prevalenza i detenuti definitivi, ma anche per i detenuti in custodia cautelare occorrerebbe una offerta di lavoro che vada oltre i lavori interni.

Terzo. Non lasciare cadere nel vuoto la Relazione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario depositata a fine anno. Delle tante proposte che qui non è possibile ripercorrere voglio sottolineare quelle, solo apparentemente di minor rilievo, contenute sotto il titolo “La quotidianità penitenziaria”. Cito l’ampliamento dei colloqui in videochiamata, la possibilità di utilizzare telefoni cellulari, l’autorizzazione al possesso di computer. I detenuti per i quali, per perduranti collegamenti con la criminalità organizzata o per altre situazioni di particolare pericolosità, si impongono rigide restrizioni per ragioni di ordine e sicurezza sono una minoranza. Per tutti gli altri detenuti il mantenimento delle relazioni familiari e dei rapporti affettivi è un elemento essenziale a limitare gli effetti di desocializzazione.

Non si può chiudere il discorso sul carcere senza toccare il tema della attuazione dei principi dettati dalla Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. L’applicazione della prima sentenza che ha consentito l’accesso ai permessi premio è stata gestita con grande prudenza dalla magistratura di sorveglianza ( meno di una decina di accoglimenti) e non ha creato problemi. Ora spetta al Parlamento dare attuazione alla seconda sentenza della Corte sulla ammissione degli ergastolani “ostativi” alle misure alternative, senza tradirne lo spirito ( e le puntuali indicazioni).

Una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Dell’impegno di questi magistrati è stata efficace testimonianza l’intervista rilasciata a questo giornale lo scorso 15 gennaio dal presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin. La Corte ha indicato un percorso sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia che devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e non limitarsi a pigre formulette “ non si può peraltro escludere che…”. Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose ma di ricordare che in carcere non ci sono “organizzazioni”, ma persone. L’offrire una prospettiva di “uscita”, di “rientro nella società” andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose e che forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, anche di consolidate appartenenze.