Edmondo Bruti Liberati, ex capo della procura di Milano, affida a "La Stampa" di Torino la sua analisi (non solo giudiziaria) sul caso di Angelo Burzi, l'ex consigliere regionale del Piemonte, suicidatosi nelle festività di Natale, dopo la condanna definitiva nel processo "Rimborsopoli". Il magistrato, ora in pensione, pone due questioni: il ruolo dei pm e la strumentalizzazione politica. «Di fronte all'insondabilità del gesto estremo, da chiunque e in qualunque circostanza compiuto, sta rispetto e silenzio. L'ex consigliere regionale del Piemonte Angelo Burzi, qualche giorno dopo la condanna a tre anni di reclusione da parte della Corte di Appello di Torino nel processo "Rimborsopoli" sull'utilizzo dei fondi regionali stanziati per il funzionamento dei gruppi rappresentati nel Consiglio Regionale, alle 23.47 del 24 dicembre, subito prima di togliersi la vita, ha scritto una mail "certo che questo mio gesto estremo sia l'unica strada da me ancora percorribile..."» scrive Bruti Liberati. «Quando si è costretti a confrontarsi con una persona che ha voluto dare conto della sua tragica scelta con una lettera destinata alla diffusione non ci si può sottrarre dalla riflessione. Lasciamo da parte alcune, scontate, infondate, ma non per questo meno deprecabili, speculazioni politiche. Nella mail dell'ingegner Burzi, resa pubblica secondo la sua volontà e giustamente pubblicata nella sua integralità sulla stampa, vi sono dure accuse» evidenzia l'ex capo della procura di Milano al quotidiano diretto da Massimo Giannini. «L'opinione pubblica è posta di fronte ad una vicenda processuale che si trascina per oltre un decennio. La politica è chiamata confrontarsi con una disciplina del finanziamento pubblico ai partiti e alle loro rappresentanze nelle istituzioni, che, tra oscillazioni e ipocrisie, ha generato prassi discutibili e talora perverse. Ma è la magistratura ad essere chiamata in causa direttamente, a rendere conto della sua responsabilità nel discernere, con scelta che non ammette terza soluzione, tra ciò che è reato e ciò che non lo è. La valutazione di fatti concreti raffrontati a una normativa inadeguata e a prassi applicative difformi provoca inevitabilmente interpretazioni diverse, nei vari gradi di giudizio e in diverse sedi giudiziarie» dice Edmondo Bruti Liberati, il quale non nega che a volte la verità processuale sia diversa dalla realtà. E in tal senso sottolinea le dichiarazioni, probabilmente fuori luogo, del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, all'indomani del suicidio dell'ingegnere Angelo Burzi. Citando un passo del Vangelo di Matteo (7, 1-2), Edmondo Bruti Liberati arriva al nocciolo della questione. «Fuori luogo e sgradevoli le speculazioni politiche su questa tragica vicenda, ma ancor più la pretesa di sottrarsi alle critiche fossero anche le più aspre. Non vi è autorità giudiziaria, per quanto elevata, che possa arrogarsi il compito di stabilire "la verità e l'obbiettività delle vicende e delle dinamiche", come ha preteso, con un comunicato stampa, il Procuratore generale di Torino. La sentenza definitiva, con quella che i tecnici chiamano l'autorità della cosa giudicata, per l'esigenza sociale di porre un termine ai processi fissa la verità processuale. Come ci indicano i detti latini, tuttora spesso richiamati, facitde nigro album, aequat quadrata rotundis, la verità processuale potrebbe anche essere in aperto contrasto con la realtà, con la "verità e l'obbiettività delle vicende"». Infine, Bruti Liberati evidenzia come «la salvaguardia della convivenza civile impone che sia rispettato il compito di chi deve decidere e non può sottrarsi anche nei casi difficili, pur con la consapevolezza che ciò che secondo le regole del processo è stato definito nero nella realtà potrebbe essere bianco o viceversa. Proprio la libera e anche aspra critica contribuisce a fondare la fiducia nella giustizia, che non può essere fede cieca, ma rispetto per coloro cui la società ha affidato il compito arduo, ma irrinunciabile, di decidere, persone umane, sulle vicende di altre persone umane».