«Al momento del mio rapimento nel maggio 2013, mio marito era un rifugiato politico in Inghilterra. Questo è un fatto indiscutibile». Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, torna a parlare di quello che per la giustizia italiana è stato il suo rapimento. Lo fa alla vigilia del processo d'appello che comincerà oggi davanti alla Corte d'appello di Perugia nel quale sarà rappresentata dagli avvocati Rosa Conti e Diana Iraci. «Vorrei ricordare a coloro che cercano di distogliere l'attenzione dei giudici attraverso i media che non è mio marito ad essere al centro di questo processo, ma io e mia figlia che abbiamo vissuto per quasi quattro giorni l'incubo di un arresto e la violenza della deportazione in un Paese la cui brutalità dittatoriale è stata appena ricordata al mondo intero» afferma in un'intervista all'ANSA. «Alcuni media sostengono che lui (il marito - ndr) - dice Shalabayeva - abbia perso o iniziato a perdere il suo status di rifugiato politico nel 2012 a causa di una condanna alla detenzione da parte dei tribunali britannici. Questo semplicemente non è vero». Shalabayeva non sarà domani in aula. «Poiché si tratta di un'udienza tecnica, sarò rappresentato dai miei avvocati» spiega. «Sono stata soddisfatta - aggiunge - della decisione di primo grado. Alcuni dei protagonisti del mio rapimento sono stati severamente condannati. Da questo punto di vista, è stata fatta giustizia. Lo stato di diritto ha prevalso. Per me, che vengo da un Paese dove tutto è arbitrario, questo mi ha dato una sensazione molto speciale e rassicurante. La decisione di primo grado ha dato a mia figlia Alua, a me e a tutta la mia famiglia il conforto di una sentenza giusta, che è tutt'altro che comune per noi». Shalabayeva ritiene comunque che «alcuni dei protagonisti» della vicenda siano «sfuggiti alla giustizia». «In primo luogo, Andrian Yelemessov - afferma -, l'allora ambasciatore kazako in Italia, così come i suoi due collaboratori Nurlan Khassen e Yerzhan Yessirkepov, che avrebbero dovuto essere condannati e che sono sfuggiti solo grazie alla loro immunità diplomatica (in base alla quale sono stati prosciolti in udienza preliminare dal gup - ndr). Ciò rappresenta per noi motivo di frustrazione. D'altra parte, i poliziotti italiani, come tutti, eseguono degli ordini. La sentenza di condanna non comprende coloro che - sostiene ancora la donna - al più alto livello dello Stato, hanno dato l'ordine di collaborare con la dittatura kazaka». «La decisione di primo grado è solida ed equilibrata» ribadisce Shalabayeva. «Dalle accuse non sufficientemente provate - prosegue - gli imputati sono già stati assolti in primo grado. Spero i giudici non si lascino influenzare e confermino le condanne del tribunale. Infatti, dato che abbiamo dovuto aspettare quasi otto anni per la condanna in primo grado, alcuni reati sono già caduti in prescrizione. Tuttavia, se la prescrizione dovesse intaccare il punto centrale del procedimento, cioè l'arresto e la successiva deportazione, in meno di quattro giorni, a bordo di un jet privato noleggiato dall'ambasciata kazaka, della moglie e della figlia del principale oppositore della dittatura kazaka, allora sarei senz'altro costretta a rivedere quanto sto dicendo sulla giustizia italiana». Shalabayeva afferma quindi di essere rimasta «scioccata dalle dichiarazioni rilasciate sabato dal sottosegretario del Ministero dell'Interno Nicola Molteni». «Non può sostenersi - sostiene - che la procedura che ha portato alla mia espulsione è stata condotta in modo corretto, quando già con la decisione dell'11 luglio 2014 la Cassazione ha stabilito che la stessa era "manifestamente illegittima ab origine". Tale decisione è irrevocabile e appare preoccupante che venga messa in discussione».