L’unica cosa certa è che a un certo punto avremo un capo dello Stato. Per il resto, più il giorno del nastro di partenza si avvicina, più questa elezione somiglia a un enigma avvolto dal mistero, per usare le parole di Winston Churchill sulla politica russa.

Ma la pandemia, le votazioni rallentate, pure la sparizione causa Covid del catafalco che di fatto venne imposto a suo tempo da Marco Pannella a protezione della segretezza del voto, e poi la frantumazione della politica, le leadership deboli e le constituency balcanizzate tanto che il gruppo più consistente è ormai quello dei transfughi e dei senza partito, fanno di questa elezione del tredicesimo inquilino del Colle, più che un mistero avvolto da un enigma, un enigma avvolto dall’isteria.

E ha anche ragione Emma Bonino che, nello sfilarsi ieri dalla corsa nella quale la stavano lanciando i suoi compagni di partito, ha detto «il metodo è oscuro e opaco, si viene avvisati di chi votare solo il mattino stesso: non è un buon metodo».

Ma il Grande Gioco dell’elezione per il Colle è sempre stato così, durante tutta la storia repubblicana.

Inevitabilmente, per la complessità della partita tutta giocata dai e nei partiti, prima ancora che della scelta di una personalità che deve rappresentare a termine di Costituzione l’unità della nazione ed essere effettivamente capace di posizionarsi super partes, oltre ad avere una reale capacità politica. Come tutte le partite complesse, essa va necessariamente condotta dietro le quinte e non sul proscenio ( ed evidentemente è per questo che al ruolo non ci si candida, o si rischia di finire come al tecnocrate prestato alla politica Cesare Merzagora, che per quanto fosse il candidato ufficiale di Fanfani nel ‘ 55 dovette cedere il passo a Giovanni Gronchi). Contano più i veti che i voti, come ha notato una vittima illustre del Grande Gioco qual è Romano Prodi. E in più, sulla vasta scacchiera, si fa anche tanta tattica. Nel gran caos del 2013, a Franco Marini restò l’impressione di esser stato usato nelle prime tre votazioni, prima di lanciare il candidato vero del centrosinistra, ed è quel che in ipotesi potrebbe accadere anche il 24 gennaio a Silvio Berlusconi (che infatti ha già proibito ai suoi di vergare il suo nome sulla scheda prima della quarta votazione).

Ma il fatto appunto è che è sempre stato così. E non solo per i 1009 Grandi Elettori: per i candidati stessi. Gli unici casi di elezione serena, a colpo sicuro, alla prima votazione che ha l’altissimo quorum dei due terzi, sono stati infatti due. Ciriaco De Mita costruì l’elezione di Francesco Cossiga con 752 voti in due giorni, ma l’interessato lo seppe solo il giorno prima, in un faccia- a- faccia che con grande disappunto dell’allora segretario della Dc avvenne alle 7 del mattino. E lo stesso accadde a Carlo Azeglio Ciampi, dopo che con lo stesso metodo di condivisione usato nel 1985 da De Mita, Walter Veltroni col consenso dell’allora presidente del Consiglio - e magna pars del Pds - Massimo D’Alema ne costruì la candidatura invitando nel salotto- biblioteca di casa sua Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini. A Ciampi, eletto al primo colpo il 13 maggio con 707 voti proprio

mentre alla sua scrivania al Tesoro stava stilando assieme al direttore generale Mario Draghi una nota in cui pregava di «smettere di votare per me», perché a metà spoglio le cose sembravano mettersi male per la contrarietà dei Popolari, la disponibilità era stata chiesta solo il 5 maggio, da Veltroni stesso. E Ciampi aveva acconsentito, ovviamente, ma confidando alla moglie tutto il proprio scetticismo.

A parte queste due proceduralmente felici elezioni, nelle quali anche la rapidità di azione ha supportato la ricerca del consenso, grandi presidenti della Repubblica sono arrivati dopo una serie estenuante di sedute. Per Sandro Pertini, uno degli inquilini del Quirinale che gli italiani han più amato in assoluto, occorsero ben 16 votazioni, e alla fine ebbe 832 consensi. Tanti quanti gli avrebbero largamente consentito di passare al primo turno.

Per Giovanni Leone occorsero 23 sedute prima della fumata bianca, che arrivò la vigilia di Natale del 1971, e del resto per eleggere Saragat si era votato dal 16 dicembre del 1964 fino all’antivigilia di Capodanno: il candidato ufficiale della Dc era Giovanni Leone, ma da Palazzo Chigi Aldo Moro, per fermarlo, chiese aiuto alla sinistra di Carlo Donat- Cattin.

Che gli rispose, ma certo Aldo, come sai i mezzi tecnici possibili sono solo tre: il pugnale, il veleno, o i franchi tiratori… E da allora, imboscate parlamentari e Donat-Cattin divennero sinonimo.

Quanto a drammaticità e conseguente rischio panico col protrarsi delle votazioni a pandemia in corso, neanche le più pessimistiche previsioni possono paragonarsi alla terribile fase vissuta per eleggere il nono inquilino del Quirinale. Era il 23 maggio di esattamente trent’anni fa, e si era al quindicesimo scrutinio.

La politica non era meno screditata di quella di oggi: scoppiata Tangentopoli l’arresto di Mario Chiesa è del 17 febbraio 1992 - e mentre in Parlamento fioccavano le autorizzazioni a procedere, non si riesce a eleggere Arnaldo Forlani capo dello Stato. Ed è a quel punto che la mafia attacca. Alla vigilia del diciassettesimo scrutinio, c’è la strage di Capaci. E i partiti, a cominciare dalla Dc, cambiano cavallo in corsa, puntando sull’ex magistrato e presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro. Che, arcicattolico, è costretto a garantire al Pci la laicità della sua funzione, «sarò il presidente di tutti».

Momenti terribili, molto più di oggi. Nei quali certo vi fu chi tenne i nervi saldi e la mente lucida. Ma ex malo bonum, come si dice. Sarà così anche stavolta, speriamo.