Va sempre dato il tempo alla giustizia di fare il proprio corso. Sempre. Anche quando l’accertamento non si realizza nel processo penale ma nell’ispezione ministeriale a carico di un giudice. Sarà dunque così pure per la scelta della guardasigilli Marta Cartabia, che ha appena avviato accertamenti preliminari nei confronti dei magistrati di Varese, titolari dei fascicoli su Davide Paitoni, il padre omicida del piccolo Daniele. Aspettiamo, vediamo se seguirà un’ispezione vera e propria e se riuscirà a far emergere condotte gravi della Procura o del Tribunale: è evidente che, tra i due uffici, qualcuno si è reso autore di un gravissimo errore. D’altronde già domenica scorsa era stato innanzitutto Matteo Salvini, subito dopo le prime notizie sull’orrendo delitto, ad aprire il fuoco di fila nei confronti della gip, ritenuta responsabile indiretta della tragedia. Che certo è destinata a non alleviare l’idea di discredito e sfiducia alimentata attorno ai magistrati italiani dagli “scandali” delle spartizioni correntizie. Di più: l’orrore generato dal corto circuito giudiziario a Varese non rende un servizio alla causa del garantismo, né alla difesa dei magistrati che adottano decisioni, quasi sempre coraggiose, divergenti dalle attese giustizialiste. Ci chiediamo una cosa, però: perché la politica non riesca a essere altrettanto decisa e severa con le toghe quando si tratta di scrivere regole che, per esempio, renderebbero un po’ più solida la valorizzazione del merito dei magistrati. Viene da chiedersi perché si debba tuttora assistere a tante esitazioni del governo, ma anche dei partiti, sulla riforma del Csm, che dovrebbe finalmente fissare quelle regole più stringenti. Un ddl di riforma sulla magistratura è in cottura ormai dal principio del mandato di Alfonso Bonafede a via Arenula. Cartabia ha trasmesso da una ventina di giorni a Palazzo Chigi il proprio “restyling” sul testo Bonafede. Eppure il Consiglio dei ministri ancora non si mette d’accordo non per approvare o respingere le proposte della guardasigilli, ma semplicemente per inserirle all’ordine del giorno. Quando si tratta di unirsi al coro nei confronti di un giudice che sbaglia, i riflessi dei politici sono degni di un centometrista ai blocchi di partenza dell’Olimpiade. Quando invece si tratta di fare sul serio, cioè di approvare riforme che incidano seriamente sulla vita dei magistrati, scatta il braccino del tennista. Ecco, oltre ai gravissimi e tragici errori commessi dal gip o dal pm di Varese, non va bene questa doppiezza. Se davvero i partiti, il governo, hanno il coraggio di affrontare limiti e peccati della magistratura italiana, lo facciano. O altrimenti il ritornello del “chi sbaglia paga” continuerà a suonare come un’insopportabile ipocrisia.