Giovanni Pascuzzi, ordinario di Diritto privato comparato nell’Università di Trento, è stato nominato nello scorso mese di novembre Consigliere di Stato. È, inoltre, autore del saggio «La cittadinanza digitale. Competenze, diritti e regole per vivere in rete» (Il Mulino, pp. 232, Euro 18). In questo libro l’accademico e giudice di Palazzo Spada chiarisce che non basta avere dimestichezza con le nuove tecnologie. Occorre affinare le competenze per essere cittadini più consapevoli nella nuova polis del cyberspazio. Qui si azzerano le distanze ma non si può prescindere da una adeguata cornice di regole, che dovranno valere per tutti. Ecco perché gli operatori del diritto è bene che si facciano trovare pronti.

Consigliere Pascuzzi, le nuove tecnologie sono parte ormai delle nostre vite. Sappiamo essere cittadini digitali e possiamo esserlo sempre di più?

Sappiamo, probabilmente no, perché, come spiego nel mio libro, per essere appieno cittadini digitali occorre possedere alcune competenze. Non è sufficiente comprare uno smartphone e regalarlo ai più giovani per essere cittadini digitali. Anzi, il rischio è quello di restare vittime e di essere da un lato emarginati perché lo si possiede, ma non lo si sa usare, o addirittura essere esposti ai pericoli che ci sono dietro a queste tecnologie. Per la stragrande maggioranza delle persone, ritornando al sapere essere cittadini digitali, credo che sia necessario superare questo gap di conoscenze e competenze. Sul possiamo essere cittadini digitali, io direi che dobbiamo esserlo. Non vedo alternative alla tecnologia che avanza, se non ritirarsi in un eremo. Dobbiamo, quindi, essere cittadini digitali e per esserlo pienamente dobbiamo tutti quanti acquisire delle competenze.

Anche nella cittadinanza digitale diritti e doveri vanno di pari passo o c’è il rischio di uno sbilanciamento in favore degli uni e a discapito degli altri?

Questo è un argomento complesso. Il concetto di cittadinanza, che è uno status che acquisiamo al momento della nascita, facendo riferimento alla comunità nazionale di appartenenza, presuppone il possesso della titolarità di diritti e di doveri. Il diritto, per esempio, di manifestare liberamente il proprio pensiero. Tra i doveri, altro esempio, quello di pagare le tasse. Cosa accade di questo paradigma nell’era digitale? Una delle caratteristiche dell’era digitale è il cyberspazio, vale a dire un ambiente che è diverso dallo spazio territoriale al quale siamo abituati e nel quale i diritti e i doveri tradizionali operano. In questo spazio digitale valgono le stesse regole oppure no? Ci sono le stesse fonti dei diritti e dei doveri? Ci stiamo addentrando in ambito in continua evoluzione. L’Unione europea si sta muovendo per elaborare una dichiarazione solenne dei diritti su internet con lo scopo di affermare che gli stessi diritti, che ognuno di noi ha nel mondo reale, devono valere nel cyberspazio a cominciare dal diritto di accesso. Sui doveri, in linea di principio, il discorso è lo stesso. Nel cyberspazio è alcune volte difficile a quali doveri siamo soggetti e quali sono le fonti delle regole.

Chi detta le regole in questo contesto?

La prassi ha visto nascere i grandi player della rete con servizi che ci vengono messi di continuo a disposizione. Si pensi all’utilizzo della casella di posta elettronica con la sottoscrizione di alcuni contratti. Senza che ci rendiamo molto conto, ci vengono sottoposti e li sottoscriviamo con un click. Il contratto, dunque, sembra diventare la principale fonte delle regole del cyberspazio. Sul fronte della fonte dei doveri il diritto tradizionale sta cercando di mettere dei paletti.

La rete e le nuove tecnologie hanno portato ad una deterritorializzazione dei diritti e a una despazializzazione della giustizia. Si sta voltando pagina per i cittadini e per gli operatori del diritto?

Le nuove tecnologie hanno già introdotto e stanno determinando delle evoluzioni. Per deterritorializzazione si fa riferimento al discorso delle regole, dei diritti e dei doveri non più riconosciuti e tutelati in un ambito spaziale ben definito, il territorio nazionale, secondo l’idea classica del diritto. Il cyberspazio non ha confini. Ognuno di noi può entrare in contatto con altre persone che si trovano dall’altro capo del mondo.

Il problema del diritto applicabile, in questo nuovo contesto, è di tutta evidenza. Una volta individuato il diritto applicabile si pone un’altra questione: chi sarà il giudice di una eventuale controversia. A ciò si aggiunga, poi, la possibilità di assicurare un enforcement della pronuncia. Siamo di fronte all’esigenza di individuare nuovi strumenti di tutela. L’Unione europea ha fatto molto su questo. Si pensi alla normativa sul commercio elettronico. Da una parte l’Ue e i singoli Stati hanno emanato delle regole, dall’altra si sta cercando di porre freno al maggior potere contrattuale dei player della rete.

Quanto si sta facendo è sufficiente?

Bisogna fare ancora un passo successivo e qui c’è l’evoluzione nell’individuare nuovi strumenti di tutela. Deve riguardare la mentalità degli operatori del diritto, che devono rendersi conto della nuova realtà con l’adeguamento degli strumenti in uso e l’introduzione di altri. Il rischio è che le cose ci sfuggano di mano e che le persone che controllano la tecnologia finiscano per controllare anche i rapporti. Conoscere i problemi e individuare i pericoli consentirà di creare pure nella rete quelle garanzie che valgono nella realtà fisica.

Il fenomeno della democrazia diretta elettronica è quasi realtà. La partecipazione politica online si sta diffondendo. Siamo sulla buona strada per l’affermazione della democrazia elettronica?

Negli scorsi decenni Norberto Bobbio parlò delle promesse mancate della democrazia. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un distacco delle persone dalla partecipazione politica. È un fenomeno non solo italiano, badiamo bene. La cartina di tornasole è il calo dell’affluenza al voto con un grande astensionismo. Le tecnologie sono apparse come uno strumento in grado di fermare certi fenomeni e di favorire una maggiore partecipazione degli elettori. Questo discorso riguarda tutta l’Europa. Partiamo dalle parole democrazia e tecnologia. Possono essere usate quando si fa riferimento al favorire la partecipazione e la discussione politica. Non abbiamo ancora la certezza che le tecnologie ci assicurino la segretezza e l’attendibilità del voto. Gli algoritmi possono diventare scatole chiuse e nessuno sa cosa avviene.

Le nuove tecnologie possono favorire la partecipazione e la disintermediazione. Per un verso, però, la disintermediazione può sbilanciarsi verso coloro che controllano le piattaforme. In questo contesto conserva sempre la sua attualità l’importanza del voto. Se votare significa contribuire ad elaborare altre proposte da mettere ai voti e determinare un processo deliberativo, si sviluppa una vera democrazia. Se, invece, deliberare significa porre il cittadino di fronte ad una proposta calata dall’alto con la sola alternativa “sì” o “no”, avremo una democrazia plebiscitaria con i cittadini chiamati a ratificare una decisione già presa. La tecnologia non è neutra. Di certo è fondamentale saperla usare. Le competenze sono quindi di notevole importanza per depotenziare gli aspetti deteriori delle nuove tecnologie.