Come se si fossero consultati da consumati colleghi, peraltro avvicendatisi alla direzione del Giornale di famiglia del candidato almeno più anziano al Quirinale, che è Silvio Berlusconi con i suoi 85 anni compiuti a fine settembre scorso, Alessandro Sallusti, ora alla guida di Libero, e Augusto Minzolini, in ordine rigorosamente d’età, hanno contestato al presidente uscente della Repubblica Sergio Mattarella di avere ignorato nel suo messaggio di Capodanno i problemi non certamente superficiali della giustizia in Italia. E di averli ignorati nella doppia veste costituzionale di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a «pochi giorni» - come ha tenuto a sottolineare lo stesso Mattarella in apertura del discorso - dalla fine del suo «ruolo». Dei due, il più anziano o il meno giovane, come preferite, Alessandro Sallusti, con un pizzico forse di franchezza o di astuzia in più, sempre come preferite, ha premesso alla sua critica una convinzione minore dell’altro che sia davvero tramontata o archiviata l’ipotesi di una rielezione del presidente uscente. «Salvo colpi di scena», ha scritto il direttore di Libero riferendo della «chiusura del settennato al Colle» di Mattarella. Come per dire, se mai dovesse riemergere l’ipotesi di una conferma - attribuita senza tanti misteri da altri giornali soprattutto alle tentazioni del segretario del Pd Erico Letta, per quanto altri invece lo immaginino ogni tanto impegnato a lavorare dietro le quinte per l’elezione al Quirinale di Mario Draghi - che la possibilità o disponibilità ad una sostanziale proroga del presidente in carica debba essere valutata tenendo conto anche del presunto o reale difetto del suo messaggio di Capodanno in materia di giustizia o (in)giustizia in Italia. Oltre a richiamarsi alla notissima vicenda di Luca Palamara, di cui Sallusti si considera ormai quasi un testimone al dettaglio e al tempo stesso uno storico per averla raccontata a quattro mani con l’ormai ex magistrato e leader di associazione dai cui contatti e quant’altro sono dipese per anni le carriere lottizzate di tante toghe, i due giornali di area di centrodestra hanno rimproverato a Mattarella di non avere voluto o saputo cogliere neppure la drammatica attualità del suicidio natalizio dell’ex consigliere forzista della regione Piemonte, Angelo Burzi. Che si è sparato in casa rivendicando la sua innocenza dopo essere stato assolto in primo grado e condannato in appello per un presunto peculato di poche migliaia di euro a 3 anni di carcere. Magari - si è fatto capire - sarebbe bastato un accenno a conclusione di un altro anno giudiziariamente infelice, con assoluzioni tardive - a carriere politiche irrimediabilmente distrutte - e severità sospette, a dir poco. Certo, lo ammetto, sarebbe stato meglio se Mattarella se ne fosse in qualche modo occupato. Ma non mi sembra neppure giusto ignorare le numerose volte in cui anche quest’anno, pur non arrivando all’estrema e inedita misura nella storia della democrazia italiana di uno scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura dopo il suq di carriere e nomine emerso come in una fogna a cielo aperto, Mattarella ha denunciato pure lui le gravi condizioni di una magistratura - ha detto - che ha ormai bisogno di una «rigenerazione». Rigenerazione – ripeto - non è una parola da poco, che solo la disinvoltura dei destinatari degli interventi del presidente della Repubblica ha potuto fingere di non sentire e non capire: la stessa disinvoltura, per esempio, con la quale i superstiti e gli aedi della presunta epopea di Mani pulite, a Milano, hanno opposto il silenzio più sconcertante, e direi anche sfrontato, alla grave denuncia testimoniale del giudice Guido Salvini sull’assegnazione di così tante e diverse vicende di Tangentopoli ad un unico giudice delle indagini preliminari. Il quale si sentiva evidentemente - aggiungo io all’articolo clamoroso e coraggioso di Guido Salvini sul Dubbio - così vicino agli inquirenti, anche loro sempre gli stessi, da suggerire agli interessati per iscritto di cambiare il tipo di imputazione per ottenere l’arresto di turno appena richiesto. C’è da domandarsi cos’altro debba ancora venire fuori da quella storia ben poco esaltante per contestare le proteste da «revisionismo» che si levano contro le troppe anomalie di quegli anni quando ne emergono di nuove o solo vengono rievocate le vecchie. Tutto ciò premesso, comunque, non trovo condivisibile la strumentalizzazione che, volenti o nolenti, si fa della posizione del presidente della Repubblica uscente sui malanni della giustizia quando l’obiettivo finale sembra quello di contrastarne l’ipotesi di una conferma. Che evidentemente è sopravvissuta, sotto sotto, anche al commiato di fine anno di Mattarella presentato come un «addio» dal Corriere della Sera o «ultimo atto» dal Giornale: l’uno e l’altro dimenticando, fra l’altro, che una conferma del presidente uscente, e conseguente stabilizzazione del governo Draghi, sarebbe un’assicurazione per la legislatura in corso. La cui interruzione comprometterebbe, con le elezioni anticipate, il rinvio dei referendum della primavera prossima sulla giustizia. Che, tra separazione delle carriere, responsabilità civile davvero dei magistrati e altro ancora, considerando la scarsa agibilità mostrata dalla legislatura in corso su questo terreno, sarebbero l’unica garanzia di un cambiamento di passo e di contenuto nei rapporti fra giustizia e politica, o società.