Si trovano risorse per tutto, in tempi di Recovery, ma non per i professionisti. Almeno, non per chi esercita una libera professione e lavora, con incarichi esterni, anche per committenti pubblici. È la sola conclusione certa che si può trarre sulla legge per l’equo compenso. Attesa per oggi in Aula a Montecitorio ma destinata, a quanto pare, a un nuovo mortifero siluro. Sempre per via del nodo già emerso a fine luglio: mancano le coperture dei maggiori oneri che il provvedimento imporrebbe al comparto pubblico. Nelle prossime ore si chiarirà il destino della proposta, che forse sconta un “handicap”: è computata in quota opposizione. Prima firmataria è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, e tra gli sponsor più attivi c’è la capogruppo di FdI in commissione Giustizia Carolina Varchi. Certo è che, al di là delle convenienze politiche, si colgono preoccupanti segnali di disinteresse, per la materia, da parte dell’esecutivo. Obiettivo del testo è garantire compensi conformi ai parametri ministeriali (lo stabilisce l’articolo 3 primo comma) alle attività svolte dai professionisti esterni, dagli avvocati innanzitutto, nei confronti di quei clienti classificati come “committenti forti”. E tra questi, anche gli enti pubblici (che attualmente devono solo “garantire il principio” dell’equo compenso). Come ricordato sabato dal Dubbio, al momento la legge è in bilico perché è risultato incapiente il “Fondo per le esigenze indifferibili” a cui, in base a un emendamento di Varchi, si sarebbe dovuto attingere per coprire i 150 milioni indicati dal Mef (e dalla commissione Bilancio della Camera) come maggior costo a carico di Agenzia delle Entrate-Riscossione. Detto in altre parole, i deputati della commissione Giustizia avevano ritenuto di trovare le coperture in una “cassa pubblica” ben precisa, solo che la cassa in questione si è rivelata tristemente vuota: non c’è un euro. Da giorni diversi parlamentari, e con loro il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, sono al lavoro per trovare una soluzione. Ma nonostante l’impegno messo in campo anche da Andrea Mandelli di FI (cofirmatario della legge) e Ingrid Bisa della Lega (relatrice), oltre che da Varchi, il ministero dell’Economia non ha lasciato trapelare alcun segnale di disponibilità a reperire altrove 150 milioni necessari. Insomma, l’impressione è che al governo interessi poco dei professionisti. O almeno, non si ritiene prioritario liberarli dalla mortificazione dei bandi a zero euro, o fissati da ministeri e comuni per cifre irrisorie, come avvenuto spesso nei quattro anni trascorsi dall’entrata in vigore della prima legislazione sull’equo compenso. Né pare che arriveranno buone notizie stamattina, quando sulla proposta sollecitata da FdI, e dal centrodestra in generale, si riunirà il comitato dei nove della commissione Giustizia. In realtà l’organismo presieduto dal pentastellato Mario Perantoni dovrà dare solo un ultimo via libera al testo coordinato con gli emendamenti della settimana scorsa. Ma ancora non è certo che, in giornata, possa essere avviata anche la discussione in Aula. Non sarà possibile se la commissione Bilancio (che si riunisce alle 13.45) non trasmetterà all’assemblea il parere sul nuovo articolato, compresa la parte che copre, in modo inefficace a quanto pare, il buco da 150 milioni di euro già lamentato il 27 luglio, nel primo parere della Bilancio (predisposto in base alla relazione del Mef).Non c’è un euro, così sembra. E al di là dei 150 milioni, ci sono altre zone d’ombra che forse gli stessi deputati della commissione Giustizia avevano sottovalutato. Nel parere con cui, a fine luglio, la commissione Bilancio aveva di fatto imposto il ritorno in commissione, all’ultimo punto compare una raccomandazione, vincolante come le altre, destinata a spezzare le gambe alla legge. Quanto meno ai suoi effetti sulla Pa, che ne costituiscono il piatto forte. In quel documento si legge infatti che “al fine di escludere comunque l’insorgenza di nuovi o maggiori oneri derivanti dall’attuazione del presente provvedimento, appare necessario aggiungere una clausola di invarianza finanziaria”. Ora, le richieste della Bilancio costituiscono di fatto emendamenti obbligatori: o vengono assecondate, o la legge non è bollinata. Punto. Ma inserire una clausola di invarianza finanziaria equivarrebbe a dire che non dovrà cambiare nulla, ad esempio, per quelle Regioni o quei Comuni che emanano bandi per incarichi legali con importi inferiori a quelli previsti dai parametri forensi. Il che però entrerebbe in contrasto con il ricordato articolo 3 primo comma della proposta, che recita testualmente: “Le disposizioni della presente legge si applicano, altresì, alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione”, oltre che appunto delle società partecipate e dei “riscossori” di tributi.Finale amaro? Chissà. Va detto che, a parte Fratelli d’Italia, FI e Lega, anche il Pd si è speso, nelle sue linee programmatiche, per l’equo compenso. A cominciare da Andrea Orlando, ministro del Lavoro e “padre”, con il Cnf, delle norme introdotte in materia a fine 2017. Pare non sia servito a molto. In una dichiarazione al Dubbio, l’onorevole Varchi, la scorsa settimana, aveva detto: «Non credo che il testo determinerebbe aggravi significativi per la Pa. D’altronde se lo facesse, vorrebbe dire che finora gli enti pubblici hanno lucrato sulla pelle dei professionisti». Ed è proprio l’ultima affermazione il solo dato certo disponibile al momento.