Dunque erano servitori dello stato e non amici dei mafiosi. Sono serviti 25 anni di accuse, di confessioni di sedicenti pentiti e ore e ore di udienze, per decidere che a Palermo, nel lontano ‘92, non ci fu alcuna vera trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Sono serviti 25 anni per scoprire che quell’indagine altro non era se non un teorema, una suggestione alimentata da un gruppo di magistrati e da pezzi larghissimi della stampa italiana. Diciamolo chiaramente, ma nel modo più asettico possibile: quella sulla Trattativa era un’indagine politica. Politica nel senso più neutro e addirittura alto del termine. No, non era politica perché aveva l’obiettivo, la volontà di colpire un partito, un leader o un movimento. Nulla di tutto questo, era molto di più: una costruzione grandiosa che nasceva da una lettura tutta politica dei fatti contestati. I magistrati hanno provato a far passare l’idea che gli ultimi 25 anni della storia repubblicana fossero stati condizionati, di più, guidati e determinati, da Cosa nostra. Anzi, dal rapporto tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Si tratta di una lettura manichea, binaria: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Una “verità” che non ammette sfumature, che cancella i chiaroscuri e perciò del tutto inverosimile. Ma è anche un racconto "criminocentrico" che semplifica in modo pericoloso la complessità degli eventi e della mafia stessa. L’impressione è che in questi anni gli inquirenti abbiano ordinato le tessere di un puzzle del tutto immaginifico, ma i cui contorni avevano in mente da anni. Un teorema che poggia sull’ossessione del terzo livello: la presunta supercupola politico-massonico-mafiosa che guiderebbe il Paese. Ed era quello che volevano dimostrare e che non sono riusciti a fare: il disegno politico è fallito. Per sempre.