Libero De Rienzo, attore straordinario. Libero De Rienzo, padre amorevole. Libero De Rienzo, amico geniale. Potevate scrivere parole così, colleghi. Potevate raccontarlo da vivo, lui che in pochi anni ha illuminato l’arte cinematografica italiana, come interprete incredibilmente versatile e regista di un unico grande film, Sangue – La morte non esiste. Sottotitolo beffardo oppure incredibilmente vero, chissà. Sono un suo amico. E sono un giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid, l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme. Con Libero De Rienzo, che non aveva la corazza protettiva del grande maestro a cui il servile giornalismo nostrano si inginocchia anche da morto né faceva paura come quel boss romano a cui, in condizioni analoghe, non è stato riservato lo stesso trattamento, l’intera filiera della cronaca nera ha dato il peggio. Intendiamoci, quello del cronista di nera è un mestiere ingrato, bastardo, ambiguo. Da sempre. Chi ha qualche anno in più sa che prima dei profili social, i più sgamati dei colleghi saccheggiavano le case delle vittime di atti violenti, magari intervistando i congiunti e rubandosi da un portaritratto la foto giusta. Ma almeno consumavano suole di scarpe e neuroni, avevano rispetto del lettore e delle persone coinvolte, operavano riscontri e torchiavano le fonti. Ora i giornalisti di nera – ma vale anche per quasi tutti gli altri, pensiamo alla giudiziaria – sono cassette della posta. In cui procure, questure e non solo infilano le loro veline. E con la schiena piegata non dal duro lavoro, ma dalla sudditanza, si prestano a far da altoparlante, megafono, strumento di toghe e divise. Siamo in zona ventennale del G8 di Genova: ricordate la trasmissione di Vespa sulla morte di Carlo Giuliani? Se sì, sapete di cosa parliamo – l’ipotesi più credibile di quel Porta a Porta? La pallottola più pazza del mondo, un incrocio tra quella che uccise Kennedy e raccontata da Kevin Costner in JFK - un caso ancora aperto e una gag di Beep Beep e Willy il Coyote – non c’è bisogno di dire altro. Con Libero De Rienzo facciamo un po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno studiato per fare l’esame da professionisti. Che la deontologia l’hanno buttata insieme al rigore in quella spazzatura di cui prima. Il sospetto, a volte bisogna avere lo stesso coraggio di Picchio nel dire le cose come stanno, è che nell’accanimento attuale contro un giovane uomo che al talento univa la voglia di ingaggiare battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato, le ingiustizie sociali, il pessimo giornalismo – ci sia una gran voglia di vendicarsi di tutte le categorie coinvolte. Altri – il boss succitato (e giustamente, tutti devono essere tutelati nei propri diritti fondamentali e la privacy è uno di questi), ma anche manager e imprenditori – sono stati protetti, perché un’autopsia non è un avviso di reato, ma su corpi giovani è necessaria. Eppure non si vede l’ora, qui, di aprire un’inchiesta, le forze dell’ordine sono state subito un colabrodo di indiscrezioni (“polvere bianca tra salotto e cucina, crack, una dose in una bustina di cellophane” neanche parlassimo della serie Narcos, con tutte le testate, dalla più importante al sitarello più spregiudicato a scrivere tutto, sotto dettatura), ipotesi (“non si può escludere che” è una frase schifosa in italiano, figuriamoci in un articolo su un padre morto così giovane), improbabili testimonianze non riscontrate di chi lo aveva visto nelle ultime ore. Sì, Libero De Rienzo era mio amico. Libero è mio amico. Ma vale per tutti gli indifesi, da una ragazza giovanissima morta sul lavoro a poveri villeggianti su una funivia, ostaggi anche da morti delle trattative Stato-stampa, baratti “rattusi” in cui una vita viene esposta e sezionata dai curiosi per fare un favore a chi potrebbe passarti un giorno, in anticipo rispetto agli altri, un’ordinanza, una soffiata su un’inchiesta dal nome evocativo, il luogo di un arresto illustre. Eravamo i cani da guardia della democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole, dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere.