«È proprio di una rivoluzione politico-culturale che si sente il bisogno in questo Paese». A dirlo è Francesca R. Recchia Luciani, professoressa ordinaria di Filosofie contemporanee e saperi di genere all’Università di Bari Aldo Moro, che al Dubbio replica alla filosofa Francesca Izzo, ribaltando l’assunto secondo cui l’identità di genere rischia di creare «mutazioni antropologiche». «Il ddl Zan non crea “mutazioni” - spiega al Dubbio -, semmai registra una trasformazione che è già in atto». Professoressa, davvero con il ddl Zan si rischia di stravolgere la realtà? Assolutamente no. La norma registra trasformazioni che sono già in atto e, di fatto, l’identità di genere non solo è già riconosciuta da moltissimi ordinamenti - questa stessa definizione esiste già da tempo in altre norme già acquisite -, ma non è altro che una sorta di presa d’atto di qualcosa realmente presente nella società. Noi abbiamo bisogno di un’operazione politico-culturale rilevante, anzi, di una rivoluzione che consenta allo Stato, attraverso norme aggiornate, di proteggere le persone che non si riconoscono all’interno dello schema binario al quale facevano riferimento gli ordinamenti del passato. La definizione relativa all’identità di genere è problematica? Più che problematica è indispensabile e necessaria, perché è il modo in cui oggi le persone trovano lo spazio per identificarsi e riconoscersi al di là del quadro binario che possiamo considerare superato. Quello che è cambiato radicalmente è proprio il confine tra natura e cultura, che da sempre è mobile. Ma è come se non si volesse accettare un ulteriore spostamento, che è già avvenuto. D’altra parte, la storia dell’umanità è la storia del continuo spostamento di questo confine. Tutti quegli eventi che hanno mutato il nostro statuto antropologico sono dipesi dal fatto che alcuni fatti della cultura e della società sono stati naturalizzati. Questo fenomeno è riconoscibile, non è un meccanismo oscuro che avviene nelle tenebre della condizione antropologica. Non sempre siamo noi a modificare la realtà, ma talvolta la realtà si è già modificata e l’ordinamento può soltanto adeguarsi alla situazione. La dottoressa Izzo, su questo giornale, ha paventato il rischio di un’eccessiva “arbitrarietà” da parte del giudice che si troverà a valutare casi sanzionabili con questa norma. È un rischio realistico? Questo, se vogliamo, è un rischio di tutte le norme, che sono soggette a interpretazione ed è evidente che ogni volta che si mette a punto una nuova legge stiamo comunque affidando alla stessa una serie di criteri che possano fare da guida al giudice. È evidente che uno spazio interpretativo c’è sempre. Ma invocare questo tema per bloccare una norma che si inserisce totalmente all’interno della legge Mancino, che è già abbondantemente utilizzata in questo Paese, trovo che sia pretestuoso. Anche l’idea stessa dei crimini d’odio è complessa: come definiamo il reato d’odio rispetto a quello che non lo è? Tutto è opinabile, se ci mettiamo a discutere su questo piano, ma ciò, a mio parere, non giustifica assolutamente la volontà di affossare un ddl che invece ritengo avere al suo interno elementi estremamente importanti e positivi. E uno dei pilastri è proprio l’identità di genere. Ecco perché a mio parere è del tutto inaccettabile che la condizione per far passare questa norma è la cancellazione dell’identità di genere. Significa snaturarla completamente e tradire il senso stesso che ha dato animo a questa richiesta di ampliamento. La libertà di opinione, che secondo alcuni partiti di destra e alcune associazioni viene messa in discussione dalla norma, è davvero in pericolo? Assolutamente no. Ricordo che anche all’epoca del dibattito attorno al reato di negazionismo della Shoah si parlava di libertà di opinione. Ma così come nel caso del negazionismo non si tratta di avere un’opinione ma di diffondere una menzogna, anche in questo caso non si mette in discussione la possibilità di esprimere un’opinione, ma si considera la punibilità dei reati d’odio, che è tutt’altra cosa. Cosa si vuole, la libertà di odiare? Credo che questo uno Stato non possa concederlo. C’è il pericolo di una discriminazione ai danni del sesso femminile, biologicamente inteso? Queste prese di posizione vengono spacciate per femministe, ma per me sono esattamente il contrario del femminismo. Io mi reputo una filosofa femminista e credo nell’affermazione della libertà e dell’autodeterminazione di ogni singola persona. Qui, invece, si sta parlando di femminismo come di una difesa corporativa di un’intera categoria, le donne, che andrebbe addirittura fatta in nome di una presunta naturalità biologica, cioè il possesso o meno di determinati attributi anatomici. Si tratta di un altro femminismo? No, ma di un fondamentalismo che trova nell’inchiodamento al corpo la natura femminile. Come se le donne fossero determinate dalla propria struttura anatomica e biologica. Io non penso che sia così, penso che i corpi siano importantissimi, che i corpi sessuati siano fondamentali, ma questo non può essere letto in termini di determinismo biologico. Tant’è vero che il corpo sessuato opera e agisce sulla base di scelte, seguendo un orientamento non univoco. Non siamo predeterminate, ma in continua trasformazione. E in effetti l’identità di genere serve a registrare questa continua modificazione. Le giovani generazioni hanno molta più dimestichezza con la dimensione fluida della sessualità, mentre questo mi sembra un posizionamento tutto legato ad una visione assolutamente statica ed eteronormativa che non è la sola possibile nell’esistenza umana. La sessualità è trasformativa ed è legata anche ad elementi culturali, non solo a fatti naturali. Ci sono state epoche in cui certi comportamenti sessuali venivano contrastati e puniti e altre in cui sono stati accettati. Non c’è un continuum sessuale, ma una pluralità di comportamenti sessuali. Allora non si capisce per quale ragione dovremmo difendere qualcosa che già di per sé non è naturale, ma in quanto culturale è modificabile. Si tratta anche di non lasciare senza tutele alcune persone, attualmente discriminate per la loro sessualità e per i loro corpi. Cambierebbe qualcosa di questa legge? Per questo Paese, che ha posizioni tendenzialmente arretrate sui temi della sessualità, anche per via della presenza del Vaticano sul nostro territorio, questa legge è un eccellente compromesso. La difendo così com’è perché credo che non si possa realisticamente e razionalmente ottenere di più in un Paese come il nostro. Però nemmeno si può ottenere di meno. E poi voglio aggiungere una cosa. Prego. Il “problema” è che questa legge interviene sui fattori educativi, altro elemento polemico. C’è sicuramente nella legge un’attenzione all’educazione che a mio parere, in Italia, è indispensabile, perché la violenza di genere non è indipendente dall’educazione, anzi, tutt’altro. Probabilmente con una scuola più sensibile a questi temi avremmo anche meno esperienze di violenza, discriminazione e rapporti tossici. È proprio su questo che bisogna lavorare, il ddl Zan, da questo punto di vista, ha una funzione di ampliamento della prospettiva, che a mio parere non può che essere positiva per la nostra vita sociale. In Italia è molto consolidato lo stereotipo virilista, familista e binarista, che conferisce agli uomini determinati comportamenti e attitudini, giustificati culturalmente, mentre per le donne si predilige ancora il ruolo materno. Così gli uomini e le donne restano ancorati ai ruoli sessuali. Un modo per scalfire questo genere di struttura patriarcale potrebbe consistere nel ragionare proprio in termini di identità di genere e non più in termini naturalistici o fisico-anatomici, poiché la natura umana è molto più complessa. Ciò potrebbe dare il via a quella rivoluzione necessaria, che a mio parere è una rivoluzione femminista.