«Il ddl Zan ha aspetti condivisibili, ma la definizione di identità di genere rischia di creare mutazioni di tipo antropologico. È un’operazione politico-culturale e farlo con una legge penale è inaccettabile». A dirlo è Francesca Izzo, femminista, docente universitaria e ricercatrice di scienze orientali ed ex deputata dei Ds. Dottoressa, cosa non va secondo lei in questa norma? Sono d’accordo perché ci sia una legge che renda più stringenti le norme già esistenti contro i crimini di odio e di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali e transessuali. Quello che sin dall’inizio, ovvero da quando il ddl Zan era alla Camera, non mi convince, e non solo me, è la presenza, in questa legge, di un aspetto che è di tipo ideologico-politico, legato al termine identità di genere. Perché? Si tratta di una formulazione che ha molti significati, ma il significato che viene spiegato all’articolo 1 - una identità sessuale sulla base della percezione del soggetto, al di là di qualsiasi dato obiettivo legato al sesso - rappresenta una posizione molto discussa, discutibile, oggetto di molte controversie negli anni sul piano accademico e del dibattito pubblico, che non può entrare in una legge di rilievo penale. Se ne deve discutere, perché ha a che fare con un mutamento di quelle che sono le convinzioni e gli aspetti di che cos’è la sessualità umana e modifica il sentire comune. Questo può certamente accadere, possiamo cambiare e nel corso dei millenni sono successe tante cose, ma non in questa maniera surrettizia e all’interno di una legge che ha rilievo penale. Questo è inaccettabile. Il rischio qual è? In una legge penale ci devono essere cose certe, stabili e definite a cui il giudice e il magistrato possano fare riferimento senza ricorrere a interpretazioni che possono essere arbitrarie. Ci sono molte preoccupazioni sulla libertà di pensiero e di espressione. Se si fa passare, in una legge penale, una posizione che è suscettibile di dibattito e di posizioni diverse, significa che si rischia di non essere liberi di dire che una donna di sesso femminile è diversa da un uomo che si dichiara donna, al di là di qualsiasi transizione. Potrei anche trovare un giudice che stabilisca che questo è discriminatorio e che la mia affermazione mostra disprezzo per quella realtà. È una cosa che reputo inaccettabile. Considero questo tipo di posizioni come misogine, per cui devo essere assolutamente libera di poterlo sostenere. Ma una volta che passa in una legge penale questo principio il rischio è che si limiti la mia libertà. Ma la clausola “salva opinioni” non evita rischi del genere? Si rende conto che hanno dovuto mettere una clausola rispetto ad un diritto riconosciuto dalla Costituzione? È abbastanza bizzarro. È stata frutto di una mediazione tra i partiti. Perché la norma è congeniata male su questo punto. Tra l’altro, se si parla di identità transessuale tutti vengono difesi. Perché non lo si fa? In una legge che è contro l’omotransfobia il termine transessuale non c’è. Un anno e mezzo fa avevamo proposto come “Se non ora quando? - Libere”, assieme all’Arcilesbica, di inserire questa definizione al posto di identità di genere, espressione ambigua che fa nascere tanti problemi. A maggio dello scorso anno abbiamo scritto una lettera aperta agli estensori della legge e a tutti i parlamentari del centrosinistra, spiegando le ragioni delle nostre perplessità e chiedendo un incontro. Ma la proposta è stata rifiutata. Perché? Non siamo state proprio prese in considerazione. A questo punto va da sé che l’intenzione non è quella di difendere le persone omosessuali e transessuali da crimini di odio e discriminazione, ma di voler far passare in maniera surrettizia una diversa visione della sessualità umana. E questo è inaccettabile. Serve una discussione che coinvolga l’opinione pubblica. La popolazione italiana è d’accordo nel proteggere di più le persone omosessuali e transessuali, ma bisogna vedere se lo sia anche su un mutamento così profondo della visione della sessualità. Non si vuole fare questa discussione e, dunque, si risolve così, dicendo che lo si fa per difendere omosessuali e transessuali. Ma è un’operazione politico-culturale e fare ciò all’interno di una legge penale non è accettabile. Perché ha parlato di misoginia? Una donna che decide di diventare uomo cancella completamente la propria identità di donna. Al contrario, quando gli uomini che decidono di rimanere tali si dichiarano donne gli stereotipi di genere diventano gli unici e soli segni di distinzione. Bisognerebbe davvero discuterne a fondo e vederne tutte le implicazioni. Vengono fuori degli aspetti paradossali. E sono molto colpita e sorpresa dal comportamento del mio mondo di riferimento politico-culturale. Non mi sarei mai aspettata da un partito di cui ho fatto parte una totale chiusura. Cosa salva di questa legge? Ci sono tanti punti buoni. Basterebbe togliere l’identità di genere, tornando alla formulazione Scalfarotto, e cadrebbero tante altre criticità. Ma su questo hanno fatto le barricate. Si possono fare degli emendamenti che non stravolgono il testo per arrivare all’obiettivo che si vuole raggiungere, ovvero combattere i crimini d’odio contro omosessuali e transessuali. Ci sono altri rischi secondo lei? L’altro aspetto è che facendo passare questa formulazione di identità di genere, non essendoci più alcuna distinzione tra una donna di sesso femminile e una donna di genere femminile, se quest’ultima accampa il diritto ad avere un figlio, sentendosi in caso contrario discriminata, l’unica maniera per farlo sarebbe quella di ricorrere alla maternità surrogata, alla quale sono fermamente contraria. E perché lo è? Perché considero la gravidanza un processo unitario, uno degli aspetti della manifestazione dell’umanità, invece con la maternità surrogata il processo unitario viene meno, viene spezzato in varie parti. Gli ovociti vengono estratti e messi sul mercato, viene messo sul mercato un ventre e viene comprato e venduto anche il prodotto bambino. La procreazione diventa una produzione, come se fosse una merce. Prima di arrivare a trasformare la procreazione in produzione vorrei che se ne discutesse a fondo e non si considerasse questo un atto di libertà. E questo perché c’è una mutazione di tipo antropologico. Si rivendica la libertà di ognuno di fare quello che vuole, anche di vendere se stesso, ma noi abbiamo vietato la schiavitù, per cui esistono anche dei divieti alla libertà individuale, quando si mettono a rischio beni di carattere collettivo e che riguardano l’antropologia e gli elementi di fondo dell’umanità.