Il provvedimento della gip di Verbania ha suscitato immediate reazioni, per lo più negative. Di fronte a una tragedia così drammatica si cercano immediatamente i responsabili senza appello. Tendenzialmente si è portati a ritenere che quelli individuati dall’accusa lo siano per davvero. E se così è allora non esiste altra misura che il carcere. Poco importa ci sia stato un processo o meno, poco importa che chi è accusato abbia avuto la possibilità di difendersi. Si tratta di dettagli di scarso interesse. Ancor meno rilievo assume la circostanza che le nostre regole processuali prevedano la custodia cautelare come eccezione, consentita solo se vi sia pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. D’altro canto nella nostra costituzione si parla ancora impropriamente di carcerazione preventiva e non tantissimi anni fa, se si veniva scarcerati, in attesa del processo, si parlava di libertà provvisoria, quasi a sottolineare che il processo sarebbe stato inutile e la condizione di libertà passeggera. Tutto questo è tipico di un sistema inquisitorio e autoritario dove le prove sono quelle raccolte dal pubblico ministero e non quelle assunte nel contraddittorio, con la parità delle parti davanti un giudice imparziale e terzo. E il processo mediatico risponde a queste logiche ed è infatti un processo parallelo parimenti autoritario, fondato su elementi raccolti dall’accusa che non sono e non dovrebbero essere considerate prove. Ecco perché spesso si assiste allo sconcerto dell’opinione pubblica rispetto a provvedimenti di scarcerazione o a sentenze assolutorie. La verità è che il processo accusatorio e il giusto processo sono stati mal digeriti dall’opinione pubblica, perché non ben spiegati dalla politica e molto spesso osteggiati da una parte consistente della magistratura. Nel nostro Paese si fa fatica ad accettare ciò che è naturale in altre democrazie liberali e così anche la presunzione di innocenza, scolpita nella nostra costituzione, sembra essere diventata un principio anacronistico quanto indifendibile. Il problema è, dunque, che nel nostro Paese non esistono valori davvero condivisi e fondanti in materia di giustizia, soprattutto per la pavidità e la debolezza della politica che da tempo ha abdicato al ruolo di “formare” la pubblica opinione, facendosi invece trascinare dalla piazza. Così si spiegano anche le reazioni alle dichiarazioni della pm che ha annunciato che per un periodo non berrà più il caffè con la gip e di quest’ultima che ha invitato tutti ad essere felici perché viviamo in uno stato di diritto. C’è chi ha commentato positivamente le dichiarazioni della gip e chi negativamente, affermando che la stessa avrebbe, sia pur giustificatamente, partecipato al processo mediatico alimentandolo. I giudici, si è detto, devono parlare con i loro provvedimenti e basta. L’affermazione è in sé corretta, ma non tiene conto di due aspetti. Il primo è che la giudice non ha parlato del processo, ma ha solo sostenuto un principio di carattere generale che dovrebbe essere largamente condiviso e, purtroppo, invece non lo è. Il secondo è che è mancato l’intervento di chi invece è rimasta silenziosa: l’associazione nazionale magistrati sempre molto lenta, o addirittura assente, nel difendere giudici che assolvono o scarcerano. Inoltre, occorre sottolineare che le dichiarazioni della pm, sottovalutate nella loro gravità, entravano non solo a piedi uniti nella valutazione della decisione della giudice, ma esprimevano, inevitabilmente, un giudizio anche sulla sua persona, sottolineando come la stessa non fosse neppure più meritevole di sorseggiare un caffè al bar in compagnia della pm, quanto meno per un periodo. Una sorta di punizione e di messa alla prova che può passare ed è passato come un giudizio di riprovevolezza nei confronti di chi era ritenuto, fino ad allora, una “collega” affidabile. Insomma, la gip è stata ritenuta biasimevole e la sua decisione deplorevole e così consegnata alla valutazione negativa dell’opinione pubblica con ogni possibile conseguenza. L’unico antidoto a tutto questo, agli attacchi a giudici che assolvono, o scarcerano, alla enfatizzazione del valore delle indagini è la separazione delle carriere. Solo così, infatti, si rafforzerà il ruolo del giudice e si conferirà autorevolezza alle sue decisioni, oggi spesso svilite alla stregua di semplici opinioni. Solo così si riuscirà a fare comprendere che gli elementi raccolti dall’accusa non sono prove, ma elementi da verificare. Solo così, forse, si raggiungerà l’obiettivo di dare centralità al processo rispetto alle indagini neutralizzando le distorsioni e le degenerazioni del processo mediatico. Solo così saremo persino indifferenti alla notizia che un Pm non beve più caffè con un giudice.