Il clamore mediatico non basta: secondo il gip di Verbania, il fermo per i tre indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla strage alla funivia del Mottarone «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge» e per questo non può essere convalidato. Luigi Nerini ed Enrico Perocchio, rispettivamente responsabile del servizio e direttore di esercizio della funivia del Mottarone sono tornati in libertà. Per Gabriele Tadini, caposervizio e l'unico ad aver confessato di aver inserito i "forchettoni" e inibito l’impianto frenante di emergenza, il giudice ha disposto i domiciliari: è uscito dal carcere poco dopo mezzanotte. Secondo il giudice Donatella Banci Buonamici, è lo stesso pm «a non indicare alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento degli indagati», smontando, dunque, le tesi della procura, che nei giorni successivi alla tragedia che ha provocato la morte di 14 persone ha formulato ipotesi di reato gravissime, senza risparmiare alcun dettaglio delle indagini a tv e giornali. In particolare, in merito alle motivazioni addotte dalla procura circa la grande risonanza dell'evento a livello internazionale, tale da rendere concreto il pericolo che i tre indagassi potessero lasciare l'Italia, il gip è lapidario: «Da tempo la giurisprudenza della Corte ha affermato che “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte unicamente dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede" - si legge nella decisione del giudice -. Suggestivo, ma assolutamente non conferente è il riferimento al “clamore mediatico nazionale ed internazionale dato alla vicenda: è di palese evidenza la totale irrilevanza, al fine di affermare il pericolo di fuga, di tale condizione, non potendosi certo farsi ricadere sulla persona dell'indagato un clamore mediatico cretosi attorno ad una vicenda, che allo stato fino ad oggi mai è stata sub iudice». Nel caso di Tadini, secondo il gip, «non era configurabile il pericolo di fuga», in quanto l'indagato ha «reso ampia confessione, ha ammesso nel dettaglio le proprie condotte, è padre di famiglia, vive e lavora da sempre in questo territorio; da alcun elemento poteva evincersi che intendesse darsi alla fuga». E ancora meno probabile sarebbe stata l'ipotesi che a scappare fosse Perocchio: «È sufficiente esaminare le modalità con le quali si è addivenuti al fermo per comprendete come totalmente inesistente fosse tale pericolo». Perocchio, infatti, non è stato raggiunto dai carabinieri a casa per essere fermato, bensì si è presentato alla caserma di Stresa dove era stato convocato per essere sentito come persona informata sui fatti, nel cuore della notte. L'uomo è arrivato sul posto accompagnato dalla moglie «e nemmeno per un attimo ha ipotizzato la fuga, come dimostra il tempo intercorso tra la convocazione e la presentazione a Stresa». Ma c'è di più ed è lo stesso giudice a sottolinearlo: «Perocchio, immediatamente, ha chiesto inutilmente di essere sentito per dare la sua versione dei fatti, dimostrando in questo modo altro che la volontà di fuggire, bensì la volontà di sottoporsi ad ogni richiesta e provvedimento dell'autorità giudiziaria». Così come per Nerini, che sin da subito si è messo a disposizione degli inquirenti per chiarire ogni suo comportamento. «Sono professionalmente soddisfatto - ha detto il legale di Tadini -. Sarebbe stato offensivo chiedere la libertà». Per il caposervizio, secondo il gip, la misura è stata decisa anche in base all’età e al suo «stabile contesto familiare». Dopo circa un’ora ha lasciato il carcere di Verbania anche Enrico Perocchio: «Sono partito immediatamente per recarmi sul luogo dell’incidente, le telefonate non mi dicevano subito che era una strage. Sono partito subito nella speranza che si trattasse di un accavallamento», ha spiegato ai giornalisti a proposito di ciò che è accaduto il 23 maggio, il giorno della strage che ha provocato la morte di 14 persone. A chi chiede cosa abbia pensato una volta saputo delle accuse, risponde: «Onestamente mi sono sentito morire, ho pensato non è possibile, non è possibile, sul momento mi sono sentito come un macigno». Tra le cose che più lo hanno colpito, ha detto Perocchio, c’è «il fatto che venisse detto che ho detto che fossi io ad avallare una cosa che non ho mai avallato». Il suo legale, Andrea Da Prato, ha insistito sul fatto che Perocchio non fosse infatti a conoscenza dell’uso dei "forchettoni". L’ultimo a uscire dal carcere è l’amministratore di Ferrovie del Mottarone srl, Luigi Nerini. «Mi dispiace tantissimo», ha affermato scortato dagli avvocati. «Il giudice ha ritenuto che le prove a loro carico non fossero sufficienti - ha detto la procuratrice Olimpia Bossi uscendo dal carcere, dopo la lettura del dispositivo da parte del gip davanti ai tre fermati nella notte di martedì - Gli indagati restano gli stessi». Secondo il gip, non si comprende perché Perocchio o Nerini avrebbero dovuto «avallare» la decisione di inserire i forchettoni come fatto, e ammesso, da Tadini. Le dichiarazioni rese dai testimoni, infatti, accuserebbero Tadini ma non direbbero nulla, secondo il gip, a proposito della «correità» degli altri due. Contro Nerini e Perocchio, secondo il gip, è «palese» al momento della convalida del fermo e della richiesta di applicare la misura cautelare del carcere «la totale mancanza di indizi che non siano mere, anche suggestive supposizioni». Il giudice ritiene che «nulla è stato aggiunto al quadro esistente al momento della richiesta e che, al contrario il già scarno quadro indiziario sia stato ancor più indebolito».