Certo, l’iniziativa d’impannellarsi, diciamo così, cioè di adottare la pratica referendaria di Marco Pannella sulla strada di una radicale riforma della giustizia, inutilmente tentata da decenni, è stata tutta di Matteo Salvini. Che ha spiazzato persino i radicali nelle loro diverse anime o correnti, accorsi comunque alla richiesta di aiuto e di collaborazione del leader leghista. Ma lasciatemi pensare che il primo a compiacersene sia stato proprio Marco Pannella dall’aldilà, dove non avrà trovato - credo - il nulla che temeva e non ha smesso di seguire a suo modo la cosa che in vita seppe fare come pochi altri con quel misto di passione, di fantasia, di astuzia, di spregiudicatezza, di ostinazione che non gli preclusero neppure l’interesse e persino la simpatia di qualche Papa: la politica. Non mi si venga a dire, per favore, neppure da Emma Bonino, sorprendentemente espostasi al Senato a votare a favore dei processi contro l’ex ministro leghista dell’Interno per gli sbarchi ritardati degli immigrati clandestini soccorsi in mare nel 2019, che Pannella mai e poi mai si sarebbe affiancato o si sarebbe lasciato affiancare da uno come Matteo Salvini. Del quale pare che non si possa fare a meno di parlare sempre peggio senza perdere il diritto di appartenere ad una comunità civile. Solo qualche giorno fa, concorrendo a celebrare in anticipo il quinto anniversario della morte di Pannella, Saverio Romano ha addirittura scritto sul Foglio - ripeto, Il Foglio libertario, garantista e quant’altro fondato da Giuliano Ferrara con l’aiuto di Silvio Berlusconi e di Marcello Pera e ora diretto da Claudio Cerasa - che Matteo Salvini è “un bullo e cazzaro mostruoso”, anche nella nuova versione incoraggiata dal già ricordato Pera e da Giancarlo Giorgetti di sovranista relativo, diciamo così, consapevole del nuovo, solidale corso adottato dall’Unione Europea di fronte ai guasti della pandemia virale. Pannella non faceva davvero sconti agli avversari di turno, li prendeva a parolacce più ancora di quanto avrebbe fatto dopo di lui Beppe Grillo, sino a scambiare per una “cupola mafiosa”, per esempio, la Corte Costituzionale dirimpettaia del Quirinale. Ma mai scambiava gli avversari per nemici da debellare, da erbaccia da estirpare, da gente da sbattere in galera buttando la chiave della cella nella prima fogna a portata di piede. Ed era capace di ammettere i suoi errori e di scusarsene in pubblico, come fece col povero Giovanni Leone pur dopo vent’anni dall’avere concorso ad allontanarlo ingiustamente dal Quirinale dopo il compimento della tragedia di Aldo Moro. In soccorso del quale, per quanto inutilmente, l’allora presidente della Repubblica seppe e volle muoversi più dello stesso Pannella e di altri che pure contestavano la cosiddetta linea della fermezza, propedeutica all’assassinio dell’ostaggio come epilogo della mattanza della scorta compiuta 55 giorni prima in via Fani. E fu proprio il coraggio di mettersi di traverso contro quella linea che costò a Leone l’uso strumentale della campagna moralistica radicale contro di lui precedente al sequestro del presidente della Dc, sino a interromperne il mandato sei mesi prima della scadenza ordinaria, come se ne fosse stato indegno. Al netto di quello sciagurato abbaglio, ripeto, Pannella fu un professionista delle cause difficili, disposto ad allearsi pure col diavolo per raggiungere i suoi obbiettivi. Solo lui il 20 febbraio del 1982, quando ancora la politica discriminatoria del cosiddetto “arco costituzionale” teorizzata dalla sinistra democristiana e dal Pci faceva di Giorgio Almirante un appestato, col quale aveva paura di confrontarsi in televisione persino uno come Indro Montanelli, che delegava ad altri, compreso me, la rappresentanza del suo Giornale nelle tribune politiche: solo lui, dicevo, poteva avere il coraggio di irrompere al congresso del Movimento Sociale raccogliendone compiaciuto gli applausi. Dopo tre anni lo imitò in qualche modo il presidente socialista del Consiglio Bettino Craxi incontrando ufficialmente Alimirante a Montecitorio per sondarne la disponibilità a votare per il Quirinale il vice presidente democristiano del Consiglio Arnaldo Forlani, alla scadenza del mandato di Sandro Pertini. Ma prevalse la soluzione di Francesco Cossiga, preferita da Ciriaco De Mita e sostenuta da Alessandro Natta per il Pci. Si deve a Pannella la funzione sorprendentemente riformatrice del referendum abrogativo, disciplinato nel 1970 - ben 22 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione - solo per contrastare l’innovazione del divorzio. A reclamare l’attuazione dell’istituto referendario fu infatti la Dc come condizione per lasciare passare alla fine di quell’anno in Parlamento, col suo voto contrario, la legge sul divorzio promossa dai liberali e dai socialisti. La convinzione coltivata a Piazza del Gesù era che la maggioranza degli elettori la volesse abolire. Accadde invece il contrario. E da allora il leader radicale cavalcò il referendum, promovendone a iosa, per fare avanzare il Paese e i partiti che ancora erano solidi, prima di diventare liquidi come oggi. Se anche Salvini lo ha capito, peraltro mentre Giuseppe Conte si è mobilitato con i “suoi” grillini contro la riforma del processo penale in cantiere nel ministero della Giustizia, a me sta bene, come a Pannella da lassù. E pazienza per gli insulti che potrò guadagnarmi.