Subordinare la liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo ostativo alla collaborazione ostativa è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata ed è pertanto compito del Parlamento proporre le modifiche legislative necessarie per dirimere la questione. Lo ha stabilito pochi minuti fa la Corte costituzionale, che ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di Cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La vigente disciplina prevede che alla libertà condizionale possano accedere tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere, ma non coloro condannati per reati come terrorismo e mafia, a meno che non decidano di collaborare con la giustizia, come previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. I giudici, secondo cui tale disciplina entrerebbe in contrasto con la Costituzione e la Convenzione, hanno stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi.  

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  Durante l'udienza dello scorso 23 marzo, l'Avvocatura dello Stato aveva "aperto" alla possibilità di liberazione anche per coloro che non decidono di collaborare, subordinando ciò alla valutazione, da parte del magistrato di sorveglianza, delle ragioni «che non consentono di realizzare quella condotta collaborativa nei termini auspicati dallo stesso giudice decidente». La posizione del governo è quella di tenere in vita la norma, ma con una formula di rigetto interpretativo che tenga conto dello “stop” agli automatismi sulla collaborazione, stabilito nel 2019 sia dai giudici di Strasburgo, nella causa “Viola contro Italia”, sia dalla Corte costituzionale, allora chiamata a pronunciarsi sulla possibilità, per gli ergastolani ostativi, di usufruire di permessi premio. Ettore Figliolia, avvocato dello Stato, ha comunque chiesto alla Corte di dichiarare «inammissibile» o «infondata» la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione, ma attraverso «un’esegesi più corrispondente alla “ratio” delle norme, assicurando uno spazio di discrezionalità al magistrato per verificare le motivazioni della mancanza di collaborazione da parte del condannato». Figliolia ha evidenziato «la peculiarità della liberazione condizionale» rispetto al beneficio dei permessi premio, su cui la Consulta si è pronunciata due anni fa: «Dopo 26 anni un detenuto ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale e, dopo altri 5 anni, la pena è considerata estinta, e il soggetto torna alla piena libertà, senza più alcun debito con la giustizia. Va considerata l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare l’ordine nel proprio territorio e nella valutazione di opposti interessi e va verificato come la liberazione condizionale deve atteggiarsi rispetto alla volontà del legislatore di dare significato alla condizione collaborativa». Quindi, può essere possibile «far decantare ogni forma di automatismo - ha osservato - e consentire al giudice di sorveglianza di verificare le motivazioni per cui il condannato non può assicurare una condizione di collaborazione» con la giustizia.  

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  Secondo la Cassazione, il dubbio di costituzionalità trova fondamento «nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata a indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale». Altrimenti, secondo il giudice rimettente, si rischierebbe «una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario». Il caso è quello di Francesco Pezzino, condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'articolo 416-bis e ormai in carcere da più di 30 anni, essendone passati tre dalla presentazione della richiesta di accesso alla libertà condizionale. «Per qualsiasi tipologia di reato, per quanto grave possa essere, la Costituzione ci invita a mettere al centro del sistema l'uomo con le sue fragilità, con i suoi errori, con le sue debolezze ma anche con la sua capacità di redenzione - ha evidenziato Giovanna Araniti, difensore di Pezzino -. Non è possibile suddividere i soggetti in categorie ritenendo alcuni aprioristicamente ed automaticamente non risocializzabili, attraverso un'etichetta fondata sul mero titolo di reato. Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologia di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato».