A pochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, l’associazione Il Carcere Possibile Onlus torna a condividere con noi una riflessione con un articolo a firma dell’avvocato Sabina Coppola, membro del Consiglio direttivo.
Tra pochi giorni la Consulta, tra numerose pressioni emotive e giustizialiste, dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo e, in particolare, sulla costituzionalità degli artt. 4 bis, comma 1, e 58 ter O.P. e dell’art. 2 D.L. 152/91 nella parte in cui impedisce agli ergastolani per reati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. di beneficiare della liberazione condizionale senza una utile collaborazione con la giustizia. Vale la pena rileggere oggi ciò che Musumeci (primo ‘ergastolano ostativo’ che ha beneficiato della liberazione condizionale per ritenuta inesigibilità della collaborazione) ha dichiarato nell’ottobre del 2019, all’indomani del convegno fortemente voluto da Il Carcere Possibile ONLUS su“ il Processo penale infinito” in quanto ancora profondamente attuale: «Sono convinto che la decisione della Consulta possa essere decisiva per sconfiggere i fenomeni criminali. La speranza è l’arma più efficace per cambiare. Prima sapevi di stare dentro per sempre, perché cambiare? Ora non è più la legge a dirti che sei irrecuperabile, ma sarà un magistrato a stabilire se lo sei o meno, mentre in precedenza aveva le mani legate anche se vedeva un cambiamento meritevole di un premio. Il mio sogno è che venga abolito l’ergastolo ostativo e che tutti nel certificato di detenzione abbiano scritta una data di inizio e una di fine e che al mattino sul calendario possano contare quanti giorni mancano».
Il quesito da dirimere è ancora lo stesso: se uno Stato di Diritto, che definisce la pena non come strumento di punizione e di vendetta ma di risocializzazione, possa tollerare ancora l’esistenza di un ‘fine pena mai’. Questo è il tema. Non certo, come qualcuno cerca di far credere, se i ‘mafiosi’ possano tornare liberi ed indisturbati nelle proprie case, ma se sia legittimo presumere che essi restino ‘mafiosi’ per tutta la loro vita, che per loro non esista alcuno spazio di riabilitazione e risocializzazione, nessun percorso che possa consentire una rivalutazione del loro vissuto, nessuna forma di premialità, se non subordinata ad una collaborazione con la giustizia. Non è corretto affermare, come se si trattasse di un teorema scientifico, che un ‘mafioso’ si è dissociato per il solo fatto che abbia collaborato con la giustizia (perché, magari, la ragione della collaborazione è solo il desiderio di riacquistare la libertà e di beneficiare del programma di protezione) e non è possibile sostenere che sia ancora legato ad ambienti criminali chi, magari, si sia davvero dissociato ma non collabori per il timore di ritorsioni sulla famiglia. È arrivato il momento di affermare ciò che la Corte Costituzionale, seppur con timidi passi, sostiene da anni (dalla sentenza 313 del 2 luglio 1990 all’ultima n. 253 del 2019 sui permessi premio), ovvero che l’automatismo secondo il quale l’assenza di una condotta collaborativa equivarrebbe, sempre e comunque, alla perduranza delle esigenze di ordine penale che precludono l’accesso ai benefici penitenziari è incostituzionale. La collaborazione con la giustizia non è (e non può essere) l’unico strumento attraverso il quale il reo può dimostrare l’intervenuta rottura dei legami criminali poiché ve ne sono altri forse ancora più autentici e, dunque, indicativi di un cambiamento reale e strutturale: si tratta dei percorsi di reinserimento sociale seguiti in carcere e dei programmi trattamentali ai quali mostrerà adesione se saprà che esiste per lui anche una sola possibilità di ottenere un beneficio. Se lo Stato accetterà ancora di privare un detenuto del diritto alla speranza, condannandolo ad un fine pena mai, legittimerà, per alcune categorie di soggetti, quel trattamento che la Corte Europea ha chiaramente definito inumano e degradante e, di fatto, disapplicherà l’art. 27 della Costituzione.
Ergastolo ostativo, uno Stato di diritto può tollerare il “fine pena mai”?
A pochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, l’associazione Il Carcere Possibile Onlus torna a condividere con noi una riflessione con un articolo a firma dell’avvocato Sabina Coppola, membro del Consiglio direttivo.
Tra pochi giorni la Consulta, tra numerose pressioni emotive e giustizialiste, dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo e, in particolare, sulla costituzionalità degli artt. 4 bis, comma 1, e 58 ter O.P. e dell’art. 2 D.L. 152/91 nella parte in cui impedisce agli ergastolani per reati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. di beneficiare della liberazione condizionale senza una utile collaborazione con la giustizia. Vale la pena rileggere oggi ciò che Musumeci (primo ‘ergastolano ostativo’ che ha beneficiato della liberazione condizionale per ritenuta inesigibilità della collaborazione) ha dichiarato nell’ottobre del 2019, all’indomani del convegno fortemente voluto da Il Carcere Possibile ONLUS su“ il Processo penale infinito” in quanto ancora profondamente attuale: «Sono convinto che la decisione della Consulta possa essere decisiva per sconfiggere i fenomeni criminali. La speranza è l’arma più efficace per cambiare. Prima sapevi di stare dentro per sempre, perché cambiare? Ora non è più la legge a dirti che sei irrecuperabile, ma sarà un magistrato a stabilire se lo sei o meno, mentre in precedenza aveva le mani legate anche se vedeva un cambiamento meritevole di un premio. Il mio sogno è che venga abolito l’ergastolo ostativo e che tutti nel certificato di detenzione abbiano scritta una data di inizio e una di fine e che al mattino sul calendario possano contare quanti giorni mancano».
Il quesito da dirimere è ancora lo stesso: se uno Stato di Diritto, che definisce la pena non come strumento di punizione e di vendetta ma di risocializzazione, possa tollerare ancora l’esistenza di un ‘fine pena mai’. Questo è il tema. Non certo, come qualcuno cerca di far credere, se i ‘mafiosi’ possano tornare liberi ed indisturbati nelle proprie case, ma se sia legittimo presumere che essi restino ‘mafiosi’ per tutta la loro vita, che per loro non esista alcuno spazio di riabilitazione e risocializzazione, nessun percorso che possa consentire una rivalutazione del loro vissuto, nessuna forma di premialità, se non subordinata ad una collaborazione con la giustizia. Non è corretto affermare, come se si trattasse di un teorema scientifico, che un ‘mafioso’ si è dissociato per il solo fatto che abbia collaborato con la giustizia (perché, magari, la ragione della collaborazione è solo il desiderio di riacquistare la libertà e di beneficiare del programma di protezione) e non è possibile sostenere che sia ancora legato ad ambienti criminali chi, magari, si sia davvero dissociato ma non collabori per il timore di ritorsioni sulla famiglia. È arrivato il momento di affermare ciò che la Corte Costituzionale, seppur con timidi passi, sostiene da anni (dalla sentenza 313 del 2 luglio 1990 all’ultima n. 253 del 2019 sui permessi premio), ovvero che l’automatismo secondo il quale l’assenza di una condotta collaborativa equivarrebbe, sempre e comunque, alla perduranza delle esigenze di ordine penale che precludono l’accesso ai benefici penitenziari è incostituzionale. La collaborazione con la giustizia non è (e non può essere) l’unico strumento attraverso il quale il reo può dimostrare l’intervenuta rottura dei legami criminali poiché ve ne sono altri forse ancora più autentici e, dunque, indicativi di un cambiamento reale e strutturale: si tratta dei percorsi di reinserimento sociale seguiti in carcere e dei programmi trattamentali ai quali mostrerà adesione se saprà che esiste per lui anche una sola possibilità di ottenere un beneficio. Se lo Stato accetterà ancora di privare un detenuto del diritto alla speranza, condannandolo ad un fine pena mai, legittimerà, per alcune categorie di soggetti, quel trattamento che la Corte Europea ha chiaramente definito inumano e degradante e, di fatto, disapplicherà l’art. 27 della Costituzione.
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