Ho letto i due articoli sul Dubbio, quello di Simona Giannetti e quello di risposta di Barbara Spinelli e la prima reazione è stata: ma davvero ancora dobbiamo discutere su questo argomento? Poi ci ho ripensato, e mi permetto di condividere qualche riflessione, con gli occhiali di una linguista. In fondo tutti/e leggiamo il mondo attraverso lenti che derivano dalla nostra enciclopedia personale, dalla nostra cultura di riferimento e dalla lingua che usiamo per raccontare la realtà. Le mie lenti partono da conoscenze linguistiche legate alla mia professione e alla mia ricerca. Mi occupo di linguistica applicata e di lingua di genere da molti anni, e collaboro ormai da tempo con giuristi e giuriste. Una riflessione sulla lingua e sul linguaggio giuridico, una riflessione inter e transdisciplinare che mi ha arricchita, nelle mie ricerche, anche di lenti diverse dalle mie e che mi aiuta a cercare di capire punti di vista diversi. La questione degli agentivi, dei nomi di professione e delle cariche istituzionali, è stata affrontata in modo esauriente da Alma Sabatini e da un gruppo di linguiste già negli anni Ottanta. Gli studi successivi si sono basati su questa ricerca, per altro edita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e hanno confermato e sostenuto quanto presentato nella pubblicazione del 1987. Le regole ci sono, e sono regole della grammatica italiana. Quello che ancora manca è un’applicazione delle regole. Tutto qui? In fondo sì, tutto qui. La lingua è un sistema di norme, e la lingua ha un uso all’interno di una comunità linguistica. Le norme, seppur con lentezza, si adeguano alla realtà dell’uso. A che serve la lingua? A rappresentare il mondo. E il mondo cambia, molto velocemente. Se ci serve una parola nuova, le regole della morfologia ci aiutano a crearla, o ad adattarla. Se cambia la connotazione, ci appoggiamo alla semantica. La lingua è in continuo movimento perché la realtà è in continuo movimento. Se non ci sono donne in magistratura fino al 1963, non ci serve il sostantivo al femminile. Ma oggi ci sono, e ci sono anche nell’avvocatura. Anzi, ci sono e sono la maggioranza. Quindi, dal punto di vista grammaticale, nessun ostacolo ad usare il femminile. La grammatica non si pone nemmeno il problema. Se chi rappresenta la carica o la professione è donna, la declinazione è al femminile. Il dubbio, o il problema, come spesso è sentito, è di tipo culturale. Ma anche in questo caso la domanda, molto semplice, è: vale quindi di più il maschile rispetto al femminile? Evidente, se molte donne “preferiscono” il maschile. E vale solo di più in alcune professioni o cariche? Evidente pure questo, se le professioni considerate meno prestigiose non prestano il fianco al dubbio sul genere. Forse dovremmo davvero fermarci a riflettere e cercare di rispondere a queste domande prima di iniziare confronti ideologici. Partendo da una consapevolezza maggiore sulla lingua che usiamo, smettendola di far ricorso ad aspetti non veri, come “la carica è neutra”, “è una questione di poco conto”, “ fissati/e con il politicamente corretto” e ancor peggio “il maschile inclusivo”. Non è una questione di politicamente corretto, né tanto meno di poco conto: la lingua crea la nostra realtà e il nostro pensiero da quando veniamo al mondo. E’ attraverso la lingua che costruiamo gli stereotipi che ci accompagnano nelle relazioni, nelle credenze, nella professione. La lingua è inclusiva, non è ideologica; è l’uso che ne facciamo che può diventare tale. La lingua è una questione di cittadinanza: un uso adeguato di essa è un esempio di democrazia. Non è una questione di “chiamatevi come volete”. La lingua è personale, ma è anche istituzionale, e rappresentanti dell’avvocatura hanno un ruolo e un potere di esempio determinante, come altre categorie (stampa, università, scuola, chiesa).   *Stefania Cavagnoli, Università di Roma Tor Vergata, Componente CPO provincia autonoma di Trento, centro di ricerca www.grammaticaesessismo.com