In una giornata insolitamente fredda per una piccola città del Sud, alla vigilia di un Natale come altri, un uomo alto, austero, avvolto nel suo paltò di cachemire grigio bussò alla porta del giovane giudice che stava sbrigando le ultime carte prima di tornare a casa. Quando lo vide entrare e togliersi il cappello a falda larga, guarnito da una fascia di seta nera, il magistrato si sollevò d’un colpo dalla sua sedia e si fece incontro all’inatteso ospite. Era il principe del foro, uno dei più famosi e apprezzati avvocati d’Italia. Il vecchio avvocato restò in piedi sulla porta, il cappello ancora nella mano con cui l’aveva compostamente sollevato dal capo, e si limitò a dire: «dottore sono passato per porgerle i miei auguri», poi con occhi arguti aggiunse: «e mi creda, non passo in tutte le stanze».

Alla vigilia di questo terzo decennio di un secolo, nato a dire il vero non troppo bene (a settembre saranno 20 anni dalle Torri gemelle) e messosi anche peggio, quei gesti e quelle parole forse non hanno alcuna importanza. O forse no. Il tendenziale azzeramento sociale ed economico prodotto dalla pandemia, la crisi profonda della professione forense, la caduta di prestigio della magistratura (solo ratificata dall’affaire Palamara) potrebbero riportare al centro gesti e parole semplici, potrebbero ridare senso a stili di vita e comportamenti totalmente consunti dalla ormai acciaccata modernità e dalle sue frenesie. La giustizia è un pianeta fragile, un ecosistema instabile in cui davvero il battito d’ali di una farfalla può scatenare il caos.

In questo microcosmo, da Tangentoli in poi, si è consumata l’illusione di una parte della magistratura di potersi sbarazzare dell’avvocatura; non certo abolendo la difesa, sia chiaro, ma semplicemente riducendone la presenza a mero orpello. E’ cresciuta in troppi la convinzione di poter schiantare gli imputati sotto il peso di pentiti e di intercettazioni, di poter trasformare il processo in una composizione a rime obbligate, in una sinfonia solitaria che si può solo ascoltare o meglio ancora plaudire mediaticamente. Era inevitabile lo scontro; era scontata la reazione dell’avvocatura, soprattutto della parte più vilipesa da quel contegno.

Il mercato delle nomine, scoperchiato nell’anno appena concluso, ha reso ancora più irriducibile e teso un confronto che solo la pandemia ha attutito e smorzato. Per ora i duellanti si scrutano a distanza, si osservano e si riorganizzano. In pieno Covid la magistratura italiana è riuscita a dar vita a ben due nuovi gruppi organizzati che vantano adepti ed esponenti di prestigio. E’, ovviamente, il sintomo di un disagio; una crepa significativa nelle pareti di un monolite che era sembrato per tanto tempo denso e privo di fessure, con sacerdoti che ne custodivano i riti e ne celebravano la sacralità all’ombra dei propri numi e dei propri martiri.

Quando la vita tornerà a scorrere nelle aule ora quasi deserte, quando la tregua pandemica sarà finita, occorrerà che a prendere la parola siano uomini e donne autorevoli, capaci di un gesto di apprezzamento e di stima che è, al tempo stesso, il segno di una separazione e di una distinzione. In fondo si tratta, semplicemente, di staccare la spina ai megafoni dei più esagitati, di togliere voce ai provocatori alla ricerca di visibilità e di uno strapuntino nelle seggiole del potere, di concedere spazio – come ha detto il Quirinale – ai costruttori di ponti. Perché ciò accada è necessario che non si percepisca più il confronto delle idee sulle cose da fare come uno scontro tra corporazioni che si sentono minacciate. Non è facile, ma nemmeno troppo difficile, basta saper scegliere a quali porte bussare e sapersi celermente alzare in piedi in segno di rispetto e stima.