Sbagliava chi si aspettava dalle elezioni americane una svolta epocale attraverso un risultato netto. Avremmo dovuto capire da due semplici constatazioni che il caso poteva giocare un ruolo decisivo in un’America divisa a metà: Trump sarebbe stato infatti probabilmente rieletto tranquillamente senza un evento incredibile come il Covid; nel 2016, avrebbe probabilmente perso senza l’arrogante pretesa democratica di trasmettere la presidenza dal marito Bill alla moglie Hillary.

Mentre troppo è incerto e casuale, ci si può concentrare sui dati sicuri di queste elezioni. Il più immediato è che appare esaurito il mito della democrazia americana. Ormai abbiamo capito che a Washington non soltanto in teoria, ma anche in pratica, chi prende più voti non vince necessariamente le elezioni. Per un tempo infinito dopo la chiusura delle urne, resta il mistero sul risultato finale, tra accuse di brogli, ricorsi legali e pasticci che (se gli Stati Uniti fossero un Paese del terzo mondo anziché la prima potenza) avrebbero richiesto gli osservatori delle Nazioni Unite. Persino accanto ai seggi, abbiamo visto uomini in divisa con mitra e armi pesanti: non soldati dell’esercito regolare o poliziotti, ma miliziani di fazione armati fino ai denti proprio perché non si fidano dei soldati e dei poliziotti. Infine, per la seconda volta, come nel 2016, i sondaggi elettorali sono risultati fuorvianti. E questo nella patria del marketing e degli algoritmi, dove le tecniche di rilevamento sono vitali innanzitutto (e non solo) per l’economia. E normale tutto ciò? Per le nostre democrazie, un tempo affascinate da quella americana, no.

Sicuro è anche cosa ci si può aspettare da Trump. Con altri quattro anni, potrebbero diventare irreversibili gli elementi di rottura che ha introdotto con il passato (anche quello repubblicano). Attacco alla neutralità politica delle istituzioni (dalle forze armate ai servizi segreti, dalla giustizia alla polizia federale). Ulteriore divisione per razza e classi della società. Isolamento dell’America e pertanto dell’Occidente dall’America, con la perdita per tutti noi di un punto di riferimento ancora indispensabile. Distruzione delle ancor timide forme di organizzazione e cooperazione sovranazionale di cui abbiamo bisogno più che mai di fronte ai problemi del mondo: dal clima alla sanità, dall’immigrazione al terrorismo. Freno al libero mercato e alla internazionalizzazione dell’economia. Il che appare contraddittorio per il Paese che ha inventato la globalizzazione e che ha al suo interno un microcosmo del mondo globalizzato stesso, con i bianchi, i neri, i cinesi, gli europei e gli indiani che lavorano fianco a fianco (e occupano indifferentemente le posizioni di vertice) nelle industrie più innovative del nostro tempo.

Meno netto è il profilo di Biden. Che è stato candidato (e qui stava la sua debolezza) non per la forza della sua personalità e la chiarezza delle sue convinzioni. E neppure perché era Biden, ma semplicemente perché non era Trump. Le automobili giravano a New York con accanto alla targa l’adesivo “ABT”: “anybody but Trump” (chiunque purché non Trump). E il chiunque è stato Biden. I democratici americani lo definiscono spesso “a decent person”. Il che per gli anglosassoni non significa in modo letterale e limitativo una persona “decente“. Ma una persona per bene, affidabile e garbata (esattamente quanto a loro parere Trump non è). Virtù non trascurabili, ma non sufficienti in campagne elettorali personalizzate come quelle di oggi. Nonostante tutto (e anche questo è un dato sicuro), gli Stati Uniti indicano ancora dove sta andando l’intero mondo occidentale. Il Trumpismo non era un fenomeno estemporaneo e non sarebbe finito neppure di fronte a una netta vittoria dei democratici. Tanto meno sono finite le sue cause profonde.

Un sondaggio ComRes del 2018 diceva che l’81 per cento dei cittadini britannici (il 91 per cento di quanti hanno votato Brexit al referendum) pensa che la politica ignori le esigenze della gente comune. Questo è il propellente per tutti i capi popolo: da Trump a Boris Johnson, sino a Grillo e Salvini. Che potrebbero anche sparire ma sarebbero presto sostituiti da altri. Un tempo la lotta politica ruotava intorno a quella definita “di classe“ o comunque intorno ai diversi interessi economici. Si trattava di dividere la torta della ricchezza, ma alla fine un compromesso si poteva trovare, con opportune correzioni nel taglio delle fette. Adesso, contano le “identity politics”: “noi contro loro“; “i nostri valori e la nostra identità contro la loro”. E il compromesso diventa quasi impossibile. Lo spiega bene un libro appena pubblicato dalla Cambridge University Press, di Maria Soboleska e Robert Ford. E’ certamente questa la base della “guerra civile” che ha contrapposto in America Trump contro Biden. E che non finirà con la proclamazione dei risultati definitivi. Le “identity politics” hanno contrapposto in America comunità e mondi diventati inconciliabili. Vecchi contro giovani. Centri periferici contro metropoli. I primi per Trump e i secondi per Biden. Che i bianchi con basso livello di scolarità abbiano votato prevalentemente a destra e quelli più istruiti (specialmente le donne) a sinistra, è ovvio. Al punto che i sondaggisti hanno ridisegnato i campioni da intervistare dopo essere giunti alla conclusione che avevano sbagliato le previsioni nel 2016 dando vincente la Clinton perché non avevano valutato più attentamente il grado di istruzione. Una correzione che è stata evidentemente insufficiente o avrebbe dovuto essere accompagnata da altre.

I conti tornano e ci riportano alle “identity politics”. Le persone anziane, poco scolarizzate o di campagna usano i valori tradizionali della loro Nazione o della loro comunità locale come scudo contro la società multiculturale e multietnica; puntano sulla famiglia contro il permissivismo sessuale. E’ così in America, ma anche in Europa. Se avessero votato soltanto i giovani, la Brexit non avrebbe vinto nel referendum e non avrebbe aperto la strada di Downing Street a Boris Johnson. Tutti i sondaggi dicono anche in Europa che per i partiti populisti votano soprattutto le persone con minore istruzione e periferiche rispetto alle metropoli. Londra, Varsavia, Budapest, Praga e Istanbul sono libertarie e progressiste pur nella Gran Bretagna di Johnson, nella Polonia di Kachinski, nella Ungheria di Orban, nelle Repubblica Ceca di Xeman e nella Turchia di Erdogan. Esattamente come lo sono sempre state New York o Los Angeles nell’America di Trump.La divisione valida un tempo dell’elettorato per classi sociali è stata ridisegnata con confini nuovi dalla globalizzazione. Trasforma la lotta di classe in scontro tra perdenti e vincenti di fronte alla globalizzazione stessa. Il che spiega ancor meglio la contrapposizione tra identità diverse prima ricordata. I lavoratori bianchi americani (o europei) anche se poco istruiti, si sentivano un tempo superiori nei confronti degli immigrati a casa loro (e allo stesso modo degli abitanti in Asia o nel terzo mondo). Si sentivano superiori per effetto dei costumi tradizionali anche alle donne. Adesso, vedono i successi della Cina (e non solo). Soffrono la concorrenza degli immigrati sul lavoro e la loro vicinanza nei quartieri popolari. Hanno in azienda come superiori donne più istruite. La frustrazione li porta ai comportamenti elettorali che conosciamo. I vincenti della globalizzazione li ignorano (o persino li disprezzano senza neppure nasconderlo). Viaggiano materialmente o via Internet nel mondo della competizione globale, parlano più lingue e sfruttano con sicurezza la loro professionalità. In sintonia con i miliardari cosmopoliti alla guida delle multinazionali, accusati di arricchirsi con la globalizzazione, come un tempo si accusavano gli altrettanto cosmopoliti ebrei.

Adesso, di fronte alle contestazioni e all’incertezza del risultato, cresce a Washington il timore di una crisi costituzionale dalle conseguenze imprevedibili. E ancora una volta deve allarmare l’estremizzazione dello scontro provocata dalle “identity politics”. Secondo il Voter Study Group infatti, un quinto degli americani ritiene che, se il partito “nemico“ vincerà le elezioni, la violenza sarà giustificata. Ed è naturale, perché i politologi Lilliane Mason e Nathan Kalmoe hanno pubblicato i risultati di una ricerca impressionante: il 60 per cento dei cittadini pensa che i sostenitori dell’altro partito siano una minaccia per l’America; il 40 li definisce malvagi e il 20 per cento degli animali.

C’è da rimanere sconcertati e da ricordare il buon senso dei nostri vecchi. I quali dicevano: “le teste o si contano o si rompono“. Inoltre (e questo dovrebbe far riflettere le sinistre di tutto il mondo) “i voti si contano e non si pesano”. Non si può dunque liquidare con sufficienza i sentimenti di larga parte della popolazione, pensando che sia arretrata o ignorante. La retorica del “politicamente corretto” ha esasperato non soltanto in America molti elettori non necessariamente di destra: ad esempio sull’immigrazione, sul rapporto tra i generi e sulle diversità sessuali. Argomenti, questi ultimi, sui quali anche da noi la sinistra sembra talvolta guidata da minoranze militanti.

Ed ecco che qui arriviamo all’Italia. Salvini sino alla vigilia del voto, ha esibito persino in Parlamento il berretto o la mascherina con il nome di Trump. Ha previsto con intelligenza la sua rimonta, oppure ha voluto manifestargli il massimo della devozione nella buona e nella cattiva sorte. O entrambe le cose. Certo, ha fatto qualcosa che nessun politico del mondo ha fatto. E che non si sarebbe sognato neppure Boris Johnson (il più legato a Trump e considerato un suo clone). Per il massimo del sovranismo, come quello professato da Salvini, è una contraddizione curiosa manifestare contestualmente il massimo della sudditanza a un capo politico pur sempre straniero. E contrapporre invece la sovranità italiana alla comunità di Bruxelles che completamente straniera non è, perché ne facciamo parte e vi abbiamo voce in capitolo. Ma Salvini ha fatto un investimento a lungo termine. Sa infatti che il combustibile del Trumpismo è comunque dovunque un patrimonio elettorale enorme. Ancor più nei Paesi, come proprio l’Italia, dove tre elementi di tale miscela combustibile sono più presenti che altrove: la vecchiaia, il basso livello di istruzione, l’ostilità verso una politica inaffidabile.

Salvini ha giocato bene le sue carte, ma deve stare attento a una contraddizione. Il Trumpismo può infatti essere popolare dappertutto, ma i nazionalismi si elidono tra loro e non necessariamente l’America di Trump può risultare popolare tra gli elettori di destra. Secondo il Pew Research Centre, le persone che hanno un giudizio favorevole sugli Stati Uniti sono infatti al livello percentuale più basso di sempre: il 41 per cento in Gran Bretagna e Giappone, meno ancora in Canada e in Francia. Soltanto l’11 per cento dei francesi e il 10 per cento dei tedeschi pensa che Trump abbia fatto un buon lavoro in politica estera (mentre rispettivamente l’84 per cento e l’86 pensava che lo avesse fatto Obama).Trump inoltre guarda agli amici ma ancor più ai soldi. Ha pressato gli alleati della NATO ad alzare le loro spese militari dal 16 al 19 per cento negli ultimi quattro anni e ha preteso per il prossimo quadriennio altri 130 miliardi di dollari in più. Una cifra la cui porzione a carico dell’Italia sarebbe difficile da chiedere all’opinione pubblica anche per Salvini.