Continua a crescere il numero del contagio da Covid in carcere, soprattutto tra il personale di polizia penitenziaria, ma tutto è ancora rimasto fermo quando a giugno è stata decretata la fine dell’emergenza. Il numero della popolazione carceraria è in continua crescita, il decreto “Cura Italia”, che ha contribuito in minima parte a sfoltire le carceri, è scaduto da un pezzo e, come se non bastasse, ancora non sono stati ratificati i protocolli per la prevenzione e la sicurezza del personale penitenziario. Il numero dei contagi Al 10 settembre risultavano 11 poliziotti penitenziari e 10 detenuti positivi al virus. Dopo un mese, esattamente con i dati aggiornati ieri dal bollettino del Dap, siamo giunti a 90 agenti penitenziari e 54 detenuti positivi. Un balzo gigantesco nell’arco di un mese. Cosa significa? Considerando i dati del mondo “esterno”, vuol dire che la seconda ondata dovrebbe porre l’attenzione sui luoghi chiusi. Dalle Rsa (basti pensare la residenza di Avezzano, provincia de l’Aquila con 103 casi di Covid) alle carceri, dai centri di permanenza agli hotspot, il problema potrebbe nuovamente sfuggire di mano. Non solo. Attualmente ci sono dei penitenziari che ospitano diversi detenuti con gravi patologie e over70enni. A causa della polemica scientemente scatenata contro quella famosa nota circolare del Dap che ha chiesto di segnalare alle autorità giudiziaria questa tipologia di detenuti a rischio, tutto si è fermato e numerose istanze di scarcerazione sono rimaste inevase. La malattia mentale amplificata dal Covid Se la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus, in questo ambito è cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatici come l’HCV che provoca l’epatite C. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia divenga ancora più importante l’esecuzione dei test combinati HCV/Covid nei 190 istituti penitenziari italiani. Ma cresce la popolazione penitenziaria e non si è fatto nulla nemmeno dal punto di vista sanitario attraverso test combinati a tappeto. Il famoso tracciamento che non è stato fatto quando c’era tutto il tempo. Si aggiunge anche un altro problema che vale per il mondo libero, ma che in carcere si amplifica a causa del suo meccanismo totalizzante: l’emergenza della salute mentale alimentata dal disagio della pandemia. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando un numero enorme di persone. L'ultimo rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salute mentale rivela che oggi nel mondo quasi un miliardo di persone convive con un qualche tipo di disturbo mentale e che l'emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid ha provocato un significativo aumento di disturbi psichici.Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. «Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano – ha fatto sapere il Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari Luciano Lucanìa – , infatti in sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori dei penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti e complesse». Penalizzazione del detenuto, senza ripensare il carcere Per ora il governo ha risposto con le chiusure, quindi limitazioni colloqui, isolamento obbligatorio di otto giorni (e senza usufruire dell’ora d’aria) dopo rientro da un permesso premio. Tutte misure che sono di fatto punitive, mentre non si utilizza la misura più consona per evitare assembramenti e quindi garantire distanziamenti fisici e gestione di eventuali emergenze: le scarcerazioni. Sì, perché il coronavirus poteva e può essere l’occasione per ripensare le pene detentive e la tutela della dignità dei detenuti. Arriva così il rischio di ripiombare alla situazione inziale quando fummo tutti colti alla sprovvista. Oggi non c’è la scusa del “cigno nero”, l’evento non è più considerato improbabile. Le direttive di marzo scorso parlano, in caso di contagio, di porre i detenuti in celle singole per l’isolamento sanitario. Era difficile, tuttavia, comprendere in che modo ciò possa essere organizzato, tenendo conto del fatto che c’erano circa 61.500 detenuti per un totale di 47.231 posti effettivi. E non ci sono celle vuote, semmai ce ne sono di inagibili. Ora man mano la popolazione è in crescita, quindi si potrebbe ripresentare lo stesso identico problema. Ricordiamo che a causa della chiusura senza se e senza ma, i detenuti si erano sentiti lasciati da soli e impauriti dal virus. Le criticità preesistenti erano emerse con forza e ha avuto come conseguenza violente rivolte, con tanto di morti e pestaggi come reazione. Tutto questo si può evitare. Il ritardo per garantire sicurezza al personale penitenziario Ma il protocollo per la prevenzione e la Sicurezza nei luoghi di lavoro in ordine all’emergenza sanitaria da Covid? Per quanto riguarda i penitenziari è in estremo ritardo. Forse mercoledì prossimo si potrebbe raggiungere una condivisione tra il Dap e le organizzazioni sindacali. Per capire del perché si parla di ritardo, basterebbe leggere la nota rivolta al capo del Dap ad agosto da parte del sindacato Uilpa. «Se in quella fase (la prima ondata ndr) la portata dei contagi e l’emergenza pandemica potevano aver colto di sorpresa (anche se in verità questa Organizzazione Sindacale aveva segnalato con discreto anticipo e con ripetuta corrispondenza diretta a molteplici interlocutori istituzionali il rischio che si verificasse gran parte di ciò che poi è di fatto accaduto) – si legge nella nota -, è persino lapalissiano che nessuna attenuante vi potrebbe essere in futuro se non fosse per tempo pianificata ogni ragionevole misura idonea a prevenire sia i pericoli sanitari sia le possibili turbative all’ordine carcerario». La Uilpa aveva denunciato il fatto che Il Dap non aveva ancora inteso condividere con i sindacati penitenziari un qualunque protocollo di misure per il contrasto e il contenimento dei rischi di contagio da Covid negli ambienti di lavoro e che l’unico confronto sul tema, tenutosi in data 14 maggio 2020, si era concluso con l’impegno assunto anche dal vice capo Tartaglia, di proseguirlo in data immediatamente successiva. Alla fine siamo arrivati alla riunione del 6 ottobre scorso dove finalmente si è parlato del protocollo. Partendo dalla bozza del ministero, il segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio, tra le altre cose, ha proposto che le carceri devono essere dotate (a pari della sede centrale del Dap) di termo-scanner per la rilevazione della temperatura corporea, fare continue sanificazioni degli ambienti di lavoro, automezzi compresi, previsione di una formazione specifica anche in ordine alle modalità di utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Se ne riparla però mercoledì.