È una scossa che può lasciare segni profondi. Nella magistratura e nel Paese. La crisi dell’ordine giudiziario ha imposto un sacrificio umano: l’espulsione di Luca Palamara dalla Anm; la rottura fra il sistema associativo, culturale, politico e la figura che più ha inteso farne un sistema innanzitutto di potere. Il punto, l’interrogativo vero è: quanto sarà possibile, per Anm, allontanarsi davvero dal modello disegnato negli ultimi anni, e certo non solo da Palamara? La sfida è difficilissima. Non tanto perché manchino figure e intelligenze in grado di aprire una strada nuova. Tutt’altro. L’insidia vera è che non ci si limiti a ripudiare le smanie di lottizzazione. Ma che si rinunci anche a esercitare un ruolo politico. Nella magistratura associata si possono annoverare leadership e gruppi davvero motivati ad alimentarne il protagonismo pubblico. Basti pensare a chi, come Eugenio Albamonte, ha voluto essere il primo presidente Anm a partecipare a un plenum del Consiglio nazionale forense. Con quel gesto, ha dimostrato di coltivare davvero un’idea di giurisdizione autonoma (dalla politica) e unitaria (nella comune sfida culturale con gli avvocati). O a Pasquale Grasso, giudice giovane e coraggioso, capace un anno fa anche di accettare la temporanea rottura con il proprio gruppo, Magistratura indipendente, e l’isolamento politico, pur di non contraddirsi. L’attuale presidente Anm Luca Poniz, dotato evidentemente di nervi saldissimi e di una considerevole dose di pazienza, viste le mostruose tensioni che anche nelle ultime ore si sono scaricate su di lui. E ancora: Antonio Sangermano, che ha “traghettato” una parte di Unicost in “Mi” e teorizza un bipolarismo tra i gruppi della magistratura con argomenti di una raffinatezza intellettuale che nella politica “vera”, oggi, non troveresti neppure a scavare con la trivella. Fino a Roberto Carrelli Palombi e Francesco Cananzi, che hanno avuto la forza di non far esplodere Unicost nonostante al centro dello “scandalo” ci fosse proprio il leader di quel gruppo, Palamara appunto. E a Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, segretaria e presidente di Magistratura democratica, intellettuali progressisti a tutto tondo, capaci a loro volta di analisi politiche che tra i partiti non si sentono da alcuni lustri. Tutto per dire che Anm non deve confondere l’addio alle lottizzazioni con una dismissione del proprio ruolo pubblico. Sarebbe una perdita che il Paese, l’élite del Paese, pagherebbe a caro prezzo. Se la magistratura associata, di fronte alla crisi aperta dall’indagine di Perugia, scegliesse il minimalismo e la ritirata, correrebbe un rischio persino peggiore della degenerazione correntizia: la deriva burocraticista. In un’Italia in cui le leadership politiche si dissolvono e le classi dirigenti evaporano o rinunciano all’impegno pubblico, sarebbe impensabile dover assistere anche a una magistratura che si rinchiude in se stessa, in una sorta di autopunizione. L’impegno associativo inteso come attività di proposta culturale va preservato. La partecipazione al dibattito pubblico sulla giustizia e sulla democrazia non dev’essere spazzato via insieme con le “nomine a pacchetto”. Il coraggio che ora Anm deve trovare non è solo quello di rompere con la cosiddetta lottizzazione degli incarichi, ma anche di non gettare il bambino con l’acqua sporca.