«Sapete cos’è avvenuto? Che i magistrati, i magistrati normali che lavorano tutti i giorni e sono i garanti dei diritti dei cittadini, hanno visto che comportamenti inappropriati li avevano commessi anche alcune delle persone che lo scorso anno, in Csm e Anm, tuonavano e condannavano. Si è disvelata la follia e l’egoismo di quel modo di ragionare. Ora niente processi di piazza o vendette. Serve un’azione simile a quella della commissione per la Verità nel Sud Africa post apartheid».

Pasquale Grasso non è uno che cerca la ola. Anche se spesso finisce per riscuotere consensi. Fatto sta che nella primavera dell’anno scorso gli è capitato di essere eletto presidente della Anm. Indicato dal suo gruppo, dal suo gruppo di allora, Magistratura indipendente. Non si trova nel periodo più comodo, diciamo, perché nel giro di poche settimane arriva l’uragano del caso Palamara. Visto che dice quello che pensa, Grasso rompe prima con i suoi, con “Mi” e poi con gli altri, e viene sostituito da Luca Poniz, ora dimissionario a propria volta. Punto di caduta: dopo essersi dimesso anche da semplice componente del direttivo, il “parlamentino” della Anm, può permettersi di dire quello che pensa senza sembrare un venditore di slogan, anche se nel frattempo si è riavvicinato alla sua vecchia componente e sostiene tesi evidentemente vicine alle posizioni di quel gruppo.

Un anno fa la vulgata attribuì a “Mi”, ancor più che a Unicost, il marchio di corrente incline alla gestione reticolare del potere. Oggi si scopre che le pratiche disinvolte erano trasversali. Se fin dall’inizio si fosse fatta distinzione fra illeciti personali e presunta superiorità morale di gruppo, oggi la stessa magistratura apparirebbe meno sfilacciata e ne uscirebbe con le ossa meno rotte?

Lo scorso anno i dirigenti dell’Anm di oggi scelsero di “indirizzare” lo scandalo, e utilizzarlo per un mutamento dei rapporti di forza interni alla magistratura. Manifestando così la propria distanza dai magistrati di tutti i giorni, scelsero questa strada invece di imboccare la direzione di un patto rifondativo dell’associazionismo, con nuovi modi di valutazione e selezione dei magistrati apicali e più sensati rapporti con la politica.

Lei descrive un’operazione condotta a freddo, come se fosse stata ispirata da un lucido e calcolato cinismo. Davvero crede che sia andata così?

Guardi che non è una cosa che mi sto inventando adesso, furono le mie dichiarazioni di quei giorni. Mi fu risposto che non era possibile, che una parte, una sola, della magistratura andava posta in quarantena, e pochi secondi dopo erano lì con il bilancino a suddividere gli incarichi in Anm. Ripeto, nel fare ciò hanno trascurato di dare una risposta di verità ai magistrati normali. Solo che adesso i magistrati normali hanno visto che comportamenti, vogliamo dire, inappropriati li avevano commessi anche alcune delle persone che lo scorso anno tuonavano e condannavano, sia in Anm che al Csm. Si è disvelata la follia e l’egoismo di quel modo di ragionare.

Intanto ora la magistratura, pur sempre fra le ultime élites intellettuali del Paese, rischia anche di non essere più considerata nel dibattito pubblico, con le altre classi dirigenti già in crisi nera. È così?

In questi giorni come lo scorso anno, penso che dobbiamo avere ancora la forza di fare qualcosa di simile alla Commissione per la Riconciliazione e la Verità del Sud Africa post apartheid. Qualcosa che ci permetta di ricordare che siamo cittadini italiani, che la nostra società è fatta delle interconnessioni di politica, giurisdizione, imprenditoria, cultura. Ricorda l’apologo di Menenio Agrippa, che spiegò l’ordinamento sociale romano paragonandolo a un corpo umano?

In pratica un precursore della sociologia moderna.

Bene, e secondo una visione sistemica è chiarissimo come gli elementi di una società da soli muoiono, e solo insieme rendono vincente una Nazione. Dunque non processi di piazza o vendette, ma riconoscimento e disvelamento di quanto accaduto e un percorso di rinnovamento insieme, senza insensatezze e aporie logiche motivate da reazioni di pancia.

Basta moralismi, d’accordo. Ma come si spiega lo scivolamento di parte della magistratura nella gestione frenetica e disinvolta del potere?

Perché si è giunti alla degenerazione del correntismo? È semplicistico immaginare che la causa di quel che leggiamo siano le mele marce della magistratura, o la inesistente casta dei magistrati.

E allora di che si tratta? Un paio d’anni fa in un’intervista a questo giornale Piergiorgio Morosini mise all’indice il carrierismo indotto dalla gerarchizzazione degli uffici: condivide?

C’è una risalente concatenazione di fattori, tra i quali non hanno certo avuto un ruolo trascurabile riforme normative che troppo tendevano a inserire elementi, del tutto impropri, di gerarchizzazione negli uffici giudiziari, e conseguente maggiore appeal dei ruoli direttivi. Non sarebbe male pensare quale fosse lo scopo di una maggiore gerarchizzazione e se fosse, e sia stata, utile alla società.

Si tratta di una riforma voluta dalla politica una quindicina d’anni fa.

L’illusione di aumentare la discrezionalità nelle scelte del Csm per premiare il cosiddetto merito ha fatto forse il resto. Dico sempre che, per l’illusione di selezionare pochissimi “primi della classe”, forse inesistenti, abbiamo creato un sistema debole.

Si tratta di una visione molto interessante, anche considerato che per la nostra Carta i magistrati sono tutti uguali. Ma ora c’è il rischio di un Csm annichilito da una controriforma?

Adesso serietà impone di riconsiderare il sistema di selezione dei direttivi, con un preponderante ruolo dell’anzianità. Vedo benissimo anche la rotazione degli incarichi e la loro non reiterabilità. Sono assolutamente contrario a forme di sorteggio per il Csm.

Lei crede che la magistratura riuscirà davvero a scrollarsi di dosso le macerie di quest’ultimo anno?

Lavorino comunque insieme, politica e magistrati perbene, l’assoluta maggioranza. Se si avrà la forza, nella magistratura e con la politica, di coltivare interlocuzioni che non si basino sui rapporti di forza ma sul bene comune e sul dialogo, soprattutto sul dialogo con i “giudici di tutti i giorni”, quelli che lavorando tutti i giorni sono i garanti del rispetto dei diritti individuali e pubblici dei cittadini, parte sana del Paese che si ritrova ancora una volta incolpevolmente sporcata da questi schizzi di fango, politica e magistratura avranno reso un grande servizio di speranza e verità ai cittadini.