Il 25 gennaio inizia la più grande migrazione umana sulla Terra: è il Capodanno cinese e milioni e milioni di persone si spostano per tornare nelle loro città natali. È la Festa di Primavera, la più importante dell'anno in Cina ed è paragonabile alle festività natalizie dei paesi occidentali. Questo è il momento in cui le famiglie si riuniscono per il tradizionale ' cenone', fanno offerte per le divinità e per gli antenati, si prega Buddha e si pulisce la casa dallo sporco dell'anno passato per fare posto alla felicità e alla buona sorte che arriveranno con il nuovo anno.

Fabbriche, uffici e tutte le istituzioni hanno sette giorni di vacanza. Il primo e l'ultimo giorno delle vacanze, tutta la rete di trasporti è affollata da milioni di cinesi in movimento che fanno tutto il possibile per tornare a casa dalle loro famiglie: dall'acquistare biglietti dai bagarini a prezzi moltiplicati, al fare la fila per tre giorni lottando per un biglietto, fino a trascorrere più di venti ore su treni superaffollati o su autobus con venti passeggeri in più su sgabelli lungo il corridoio per tratte di decine di ore. A spostarsi in questo periodo sono soprattutto i lavoratori migranti. Portano grandi e pesanti borse piene dei loro beni e di regali, spostandosi generalmente dalla più ricca costa orientale della Cina alle loro città di origine con i treni notturni in classe economica.

Ecco, si può solo immaginare cosa stiano attraversando in questo momento i responsabili delle autorità sanitarie cinesi – dopo che sono scoppiati centinaia di casi accertati ( anche se sembrano essere molti di più) di affetti da una forma di polmonite provocate da un coronavirus, e si contano i primi decessi, e soprattutto la presenza di casi non solo a Wuhan, dove un mercato di pesce e pollame, il Huanan Seafood Market, pare sia l’epicentro della nuova epidemia, ma anche a Shenzhen, a Pechino, oltre che fuori della Cina, in Thailandia, in Giappone, in Corea del Sud, e da ieri anche un primo turista europeo, di rientro dalla Cina.

Questo Capodanno cinese, peraltro, dà inizio all’anno del Topo. E furono i topi, nella peste del 1348, i veicoli dell’epidemia, perché le loro pulci, infette, passavano all’uomo. «Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano.

E assai n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno». È l’incipit del Decamerone di Boccaccio, che descrive l’impatto della peste su Firenze e la fuga dalla città di dieci giovani – sette donne e tre uomini – che si raccontano a turno delle storie per ingannare il tempo: la parola e il racconto sono la salvezza. La medicina del tempo non aveva conoscenze in grado di fermare il contagio e le sue raccomandazioni non funzionavano granché meglio dei cortei di flagellanti, che si frustavano in continua penitenza per chiedere perdono a Dio di aver mandato il male.

Che era venuto dall’oriente, passando per la Siria e fermandosi poi in Crimea dove l’Orda d’oro assediava la città di Caffa, importante snodo commerciale della Via della Seta e porto praticato stabilmente da marinai e mercanti genovesi. I mongoli pensarono di risolvere presto l’assedio lanciando con una catapulta i cadaveri dei propri compagni morti di peste, che si andava diffondendo tra le loro fila, dentro la città. Non servì a risolvere il conflitto, ma servì a diffondere la peste. Furono i marinai genovesi a portarla a Messina, porto commerciale importante, e da lì si sviluppò rapidamente in Europa.

Si calcola che un terzo della popolazione europea, che viveva i primi processi di urbanizzazione, ne fu falcidiata – qualcosa tra i venti e i venticinque milioni. «Le campane non suonavano più e nessuno piangeva. L'unica cosa che si faceva era aspettare la morte, chi, ormai pazzo, guardando fisso nel vuoto, chi sgranando il rosario, altri abbandonandosi ai vizi peggiori. Molti dicevano: È la fine del mondo!» Così, un cronista svedese raccontava la peste nera. Perché, da sempre, la pandemia si associa all’apocalisse, alla fine del mondo. Nel Trecento, molti furono quelli che si abbandonarono all’idea che Dio avesse mandato un flagello sulla Terra, per punirci. E molti ne incolparono gli ebrei, che avvelenavano i pozzi – benché proprio papa Clemente VI si prodigasse per tacitare queste orribili sciocchezze, con l’osservazione più semplice: anche gli ebrei morivano di peste. Ma l’evidenza non li risparmiò da persecuzioni e massacri.

Questo nuovo virus è apparso un mese fa circa. Benché tutte le autorità internazionali dicano che le possibilità di trasmissione da uomo a uomo siano bassissime, ci sono i rischi legati alle sue possibili mutazioni. Il fatto è che nel 2003, quando scoppiò la SARS – anche lì l’origine era un mercato di pollame in Cina – le autorità cinesi furono molto restie a fornire dati sicuri e a collaborare.

Certo, le cose sono cambiate: gli aeroporti sono molto controllati, e anche i passeggeri in arrivo e partenza. Questo fa ricordare come durante la peste nera del Trecento l’unico paese europeo a rimanerne indenne fu la Polonia, perché re Casimiro III fu inflessibile nel chiudere gli accessi alla nazione. Ma è inimmaginabile oggi “chiudere” una nazione – e i commerci e i viaggi. Significherebbe far collassare il mondo. La scienza medica è diventata affidabile nel contenere l’esplodere delle epidemie – e le misure di prevenzione, fondamentalmente igieniche e nella preparazione dei cibi, sono una buona barriera. L’apocalisse dovrà aspettare, per manifestarsi.