La spietata operazione con cui Donald Trump, assumendosene la personale responsabilità, ha fatto fuori l’uomo- simbolo della sanguinaria determinazione militare iraniana, il generale Soleimani, è stato un pugno in faccia per tutti quelli che si apprestavano a salutare l’alba del nuovo decennio con un briciolo di fiducia nel futuro.

Le implicazioni, partendo da quell’ordigno esplosivo sempre innescato che è il Medio Oriente, sono talmente pesanti e complesse che nessuno può esimersi dal formulare, o almeno abbozzare, un giudizio su quanto avvenuto e sulle sue conseguenze. Si tratta di un avvenimento della massima rilevanza, su questo gli analisti e gli esperti di geopolitica sono tutti concordi, divergendo però subito in modo radicale perfino sulla sua definizione etico- politica: per alcuni atto di guerra improvvido e illegittimo, in quanto inquadrato in una guerra non dichiarata. Per altri, provvidenziale intervento di chirurgia preventiva.

Questi ultimi tendono insomma ad inquadrare l’assassinio a freddo del generale Soleimani in una strategia, nota fin dai tempi degli antichi romani e sintetizzata nel celebre aforisma latino “Si vis pacem, para bellum”. Cioè Trump, dietro il cipiglio guerrafondaio attribuitogli dall’opinione pubblica di tendenze democratiche, nasconderebbe una linea di condotta, certamente ambivalente e rischiosa, mirata a un duplice obiettivo: riaffermare l’immagine prepotente dell’America great again su cui ha basato il suo quadriennio vincente, in chiave elettorale; e, privando l’Iran di un pilastro tattico ed emozionale come Soleimani, allontanare di fatto l’eventualità bellica almeno fino a una completa e non facile riorganizzazione delle strategie militari iraniane. Il tutto nella consapevolezza che a pagare il prezzo dell’ira dell’ayatollah Khamenei saranno forse sì i contingenti americani ( valutabili in 60/ 70mila unità), ma soprattutto Israele e gli stati direttamente coinvolti nella conflittualità permanente in Medio Oriente per interessi economici, orientamenti religiosi e collocazione geografica.

Come sempre c’è da registrare l’atteggiamento a dir poco prudente dell’Europa, anche di fronte a eventi clamorosi come quello del 3 gennaio a Baghdad. La ragione è da ricercarsi soprattutto nelle divisioni di ordine politico che caratterizzano le opinioni pubbliche di un continente poco propenso a guardare con simpatia all’amministrazione Trump o anche alla tirannia putiniana in Russia, ma al contempo scosso, nell’ultimo decennio, da pulsioni sovraniste e populiste tendenti a smontare l’idea stessa di unità europea per inseguire poco fondate suggestioni nazionaliste.

Sono lontani i tempi in cui la cortina di ferro divideva rigidamente le zone d’influenza delle maggiori potenze nel mondo, consegnando a tutti una chiave di lettura ideologica degli eventi internazionali chiara, infallibile ed estremamente comoda, nelle sue distinzioni manichee tra la destra e la sinistra del pianeta.

Ora, per capirci qualcosa, tocca faticare molto di più.

L’impressione, sempre più diffusa, è che con un funerale a cui partecipano milioni di persone e in cui i morti da accompagnare al cimitero aumentano di trenta unità solo per aver voluto essere presenti, ci sia poco da scherzare. E che il detto latino, nel corso dei secoli e nell’indifferenza generale, possa essere diventato “Si vis bellum, para bellum”.