Caduta nel vuoto assoluto in un primo momento, la proposta rivolta dal numero 2 della Lega Giancarlo Giorgetti a tutti i partiti, è stata ripresa da Zingaretti venerdì scorso. Il leghista suggeriva di riscrivere insieme le 4 o 5 regole fondamentali per rimettere consensualmente in sesto un sistema che dire traballante è poco. Renzi si era detto subito disponibile. Zingaretti si è pronunciato venerdì scorso: ‘ la proposta non va fatta cadere’. Sarebbe un ottimo segnale, se lo si potesse prendere sul serio evitando dubbi invece obbligatori. Zingaretti non nasconde infatti il sogno di dar vita a un sistema bipolarista codificato. L’idea piace alla Lega e forse potrebbe apprezzarla anche Renzi, il cui obiettivo di fondo è tornare leader assoluto del centrosinistra. E’ però inaccettabile per i 5S, che vedrebbero sancita una volta per tutta la subalternità al Pd. Immaginare un Pd pronto a mettere in gioco il governo, perché di questo si tratterebbe, pur di imporre un sistema bipolarista pur sapendo che quasi certamente perderebbe la prima sfida elettorale, sarebbe chiedere troppo a quel partito.
In ballo, inoltre, c’è soprattutto la legge elettorale, che lo stesso Pd mira a usare per forzare verso il bipolarismo. Nei vertici di maggioranza propone infatti il sistema elettorale delle comunali, col doppio turno, e non si capisce bene quale confusione mentale induca a credere di poter riapplicare un sistema elettorale che fa perno sull’elezione diretta del sindaco a una realtà in cui non è invece prevista l’elezione diretta del premier. Come linea del Piave, il partito di Zingaretti è attestato su un proporzionale ma con soglia di sbarramento molto alta, ma preferirebbe almeno un sistema misto con una quota maggioritaria. Pare quindi evidente che la strizzata d’occhio rivolta a Giorgetti abbia essenzialmente una funziona di minaccia. Significa avvertire sia i 5S che LeU: meglio accettare ora la mediazione col Nazareno che ritrovarsi domani di fronte a un sistema ipermaggioritario imposto dall’asse Destra- Pd.
Ancora una volta ci ritroveremo quindi, molto probabilmente di fronte all’eterno vicolo cieco della politica italiana quando si trova alle prese con le riforme di sistema. Sulla carta tutti ne riconoscono la fondamentale importanza strategica, salvo poi subordinare l’elevata missione alle prossime elezioni, fossero pure di secondaria importanza. Lo si è visto più volte nel ventennio della seconda Repubblica. La proposta di assemblea costituente è stata avanzata a turno da Forza Italia, allora trionfante, e dagli allora Ds. Salvo essere respinta ogni volta dal potenziale partner di turno, che nel frattempo era passato dall’essere all’opposizione a diventare forza di governo, molto più concentrata quindi sul difendere la propria maggioranza che non a ridisegnare l’edificio istituzionale del Paese. Probabilmente però è questa miopia, che porta sempre a privilegiare la convenienza a breve sull’ottica di strategica e di ampio respiro, che ha logorato il sistema italiano, finendo per costituire di fatto una minaccia per la tenuta stessa della democrazia sostanziale.
Almeno dal 1993, ma in realtà anche da prima, sin dai tempi della ‘ grande riforma’ craxiana e delle bicamerali Jotti e De Mita, ridisegnare consensualmente l’architettura istituzionale italiana è la sfida che le forze politiche disattendono. La stessa commissione bicamerale presieduta negli anni ‘ 90 da Massimo D’Alema, quanto di più vicino a un vero tentativo di riformare le istituzioni si sia tentato in Italia, si arenò proprio su calcoli del genere. In quel momento, con l’eco di tangentopoli ancora sonoro, il centrosinistra non poteva permettersi di riformare la giustizia senza essere punito dal proprio elettorato, mentre Berlusconi non poteva accettare una riforma del sistema che mantenesse inalterato solo il capitolo giustizia.
Le cose sono ulteriormente complicate da due distorsioni tipiche della politica italiana negli ultimi decenni. La prima è la tendenza, presente soprattutto a sinistra, a misurarsi con gli avversari negandone la legittimità democratica, e con ciò vitandosi la possibilità del dialogo. Non che alcuni leader, prima lo stesso D’Alema e poi Renzi, non ci abbiano provato. Solo che passare anni denunciando l’avversario come nemico giurato della democrazia e poi dialogare con lo stesso significa esporsi automaticamente all’accusa di tradimento da parte di un elettorato drogato dalla precedente campagna di delegittimazione. Succedeva con Berlusconi, succederebbe ora, in forme amplificate, con Salvini.
La seconda distorsione è una specie di cult che si è costruito nel tempo intorno alla ‘ Costituzione più bella del mondo’. La carta, anche nella sua seconda parte, quella che tratta il funzionamento del sistema e non i suoi prìncipi, è diventata non più solo ‘ rigida’, come la avevano voluta gli stessi costituenti, ma intoccabile almeno nelle sue principali articolazioni. Naturalmente ci possono essere riforme costituzionali pessime, ma per una parte sostanziosa dell’elettorato italiano ‘ pessima’ e fellona è diventata l’idea stessa di modificare la Carta, indipendentemente dai contenuti della riforma in questione.
In questa palude, le istituzioni non riescono a uscire da un guado che è diventato ormai condizione esistenziale almeno dal referendum che, nel 1993, mise fine alla prima Repubblica. Da quella palude, però, prima o poi la democrazia italiana dovrà trovare la forza di uscire, pena la sua stessa sopravvivenza.
Pd- Lega, la minaccia di una svolta bipolarista per spaventare e tenere a bada M5s e Leu
Caduta nel vuoto assoluto in un primo momento, la proposta rivolta dal numero 2 della Lega Giancarlo Giorgetti a tutti i partiti, è stata ripresa da Zingaretti venerdì scorso. Il leghista suggeriva di riscrivere insieme le 4 o 5 regole fondamentali per rimettere consensualmente in sesto un sistema che dire traballante è poco. Renzi si era detto subito disponibile. Zingaretti si è pronunciato venerdì scorso: ‘ la proposta non va fatta cadere’. Sarebbe un ottimo segnale, se lo si potesse prendere sul serio evitando dubbi invece obbligatori. Zingaretti non nasconde infatti il sogno di dar vita a un sistema bipolarista codificato. L’idea piace alla Lega e forse potrebbe apprezzarla anche Renzi, il cui obiettivo di fondo è tornare leader assoluto del centrosinistra. E’ però inaccettabile per i 5S, che vedrebbero sancita una volta per tutta la subalternità al Pd. Immaginare un Pd pronto a mettere in gioco il governo, perché di questo si tratterebbe, pur di imporre un sistema bipolarista pur sapendo che quasi certamente perderebbe la prima sfida elettorale, sarebbe chiedere troppo a quel partito.
In ballo, inoltre, c’è soprattutto la legge elettorale, che lo stesso Pd mira a usare per forzare verso il bipolarismo. Nei vertici di maggioranza propone infatti il sistema elettorale delle comunali, col doppio turno, e non si capisce bene quale confusione mentale induca a credere di poter riapplicare un sistema elettorale che fa perno sull’elezione diretta del sindaco a una realtà in cui non è invece prevista l’elezione diretta del premier. Come linea del Piave, il partito di Zingaretti è attestato su un proporzionale ma con soglia di sbarramento molto alta, ma preferirebbe almeno un sistema misto con una quota maggioritaria. Pare quindi evidente che la strizzata d’occhio rivolta a Giorgetti abbia essenzialmente una funziona di minaccia. Significa avvertire sia i 5S che LeU: meglio accettare ora la mediazione col Nazareno che ritrovarsi domani di fronte a un sistema ipermaggioritario imposto dall’asse Destra- Pd.
Ancora una volta ci ritroveremo quindi, molto probabilmente di fronte all’eterno vicolo cieco della politica italiana quando si trova alle prese con le riforme di sistema. Sulla carta tutti ne riconoscono la fondamentale importanza strategica, salvo poi subordinare l’elevata missione alle prossime elezioni, fossero pure di secondaria importanza. Lo si è visto più volte nel ventennio della seconda Repubblica. La proposta di assemblea costituente è stata avanzata a turno da Forza Italia, allora trionfante, e dagli allora Ds. Salvo essere respinta ogni volta dal potenziale partner di turno, che nel frattempo era passato dall’essere all’opposizione a diventare forza di governo, molto più concentrata quindi sul difendere la propria maggioranza che non a ridisegnare l’edificio istituzionale del Paese. Probabilmente però è questa miopia, che porta sempre a privilegiare la convenienza a breve sull’ottica di strategica e di ampio respiro, che ha logorato il sistema italiano, finendo per costituire di fatto una minaccia per la tenuta stessa della democrazia sostanziale.
Almeno dal 1993, ma in realtà anche da prima, sin dai tempi della ‘ grande riforma’ craxiana e delle bicamerali Jotti e De Mita, ridisegnare consensualmente l’architettura istituzionale italiana è la sfida che le forze politiche disattendono. La stessa commissione bicamerale presieduta negli anni ‘ 90 da Massimo D’Alema, quanto di più vicino a un vero tentativo di riformare le istituzioni si sia tentato in Italia, si arenò proprio su calcoli del genere. In quel momento, con l’eco di tangentopoli ancora sonoro, il centrosinistra non poteva permettersi di riformare la giustizia senza essere punito dal proprio elettorato, mentre Berlusconi non poteva accettare una riforma del sistema che mantenesse inalterato solo il capitolo giustizia.
Le cose sono ulteriormente complicate da due distorsioni tipiche della politica italiana negli ultimi decenni. La prima è la tendenza, presente soprattutto a sinistra, a misurarsi con gli avversari negandone la legittimità democratica, e con ciò vitandosi la possibilità del dialogo. Non che alcuni leader, prima lo stesso D’Alema e poi Renzi, non ci abbiano provato. Solo che passare anni denunciando l’avversario come nemico giurato della democrazia e poi dialogare con lo stesso significa esporsi automaticamente all’accusa di tradimento da parte di un elettorato drogato dalla precedente campagna di delegittimazione. Succedeva con Berlusconi, succederebbe ora, in forme amplificate, con Salvini.
La seconda distorsione è una specie di cult che si è costruito nel tempo intorno alla ‘ Costituzione più bella del mondo’. La carta, anche nella sua seconda parte, quella che tratta il funzionamento del sistema e non i suoi prìncipi, è diventata non più solo ‘ rigida’, come la avevano voluta gli stessi costituenti, ma intoccabile almeno nelle sue principali articolazioni. Naturalmente ci possono essere riforme costituzionali pessime, ma per una parte sostanziosa dell’elettorato italiano ‘ pessima’ e fellona è diventata l’idea stessa di modificare la Carta, indipendentemente dai contenuti della riforma in questione.
In questa palude, le istituzioni non riescono a uscire da un guado che è diventato ormai condizione esistenziale almeno dal referendum che, nel 1993, mise fine alla prima Repubblica. Da quella palude, però, prima o poi la democrazia italiana dovrà trovare la forza di uscire, pena la sua stessa sopravvivenza.
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