Trattativa difficile, ma agevolata da una paradossale convergenza. Il Pd è a un passo dal via libera sulla norma più dura, proposta dal M5S, dell’intero piano di governo per il fisco: i sequestri e le confische preventive ai presunti evasori.

Provvedimento estremo, discusso fino alla tarda serata di ieri, prima ancora che in Consiglio dei ministri, già nel lungo vertice di maggioranza che il premier Giuseppe Conte conduce in due tempi: prima con la delegazione 5 Stelle guidata da Luigi Di Maio, quindi con le altre, quella del Pd innanzitutto, capitanata da Dario Franceschini. Nell’accordo vacillano diversi passaggi. Eppure sembra reggere, almeno al momento di mandare in stampa questa edizione del giornale, l’intesa sulla proposta più restrittiva in campo fiscale. Che non è l’abbassamento da 150mila a 100mila euro dell’importo per il quale chi froda l’erario può essere condannato a una pena detentiva, né l’innalzamento di quest’ultima, nel massimo, da 6 a 8 anni, ma la clamorosa estensione ai reati fiscali delle misure di prevenzione antimafia.

Ebbene sì. Con una certa agilità assai superiore rispetto agli ostacoli trovati da altre richieste del Movimento, sembra destinata a entrare nel decreto fiscale collegato alla Manovra l’ulteriore ampliamento del cosiddetto doppio binario. Introdotti nel 1992, divenuti da allora un pilastro del Codice antimafia, sequestri e confische preventivi sono ormai sempre applicabili, da fine 2017, anche per la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione. Una scelta del legislatore che ha suscitato perplessità nella stragrande maggioranza dei giuristi italiani. Il provvedimento che ha equiparato boss e tangentisti è la legge 161 del 17 ottobre 2017. Entrata in vigore durante il governo Gentiloni. E fortemente voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi vicesegretario dem.

Non sono servite neppure le osservazioni con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel promulgare le nuove, pesantissime norme, ne ha suggerito un «attento monitoraggio».

Sono stati i dem dunque a far cadere per primi l’argine che teneva sequestri e confische preventivi nel operimetro della lotta alla mafia. L’antefatto spiega la relativa fluidità con cui una svolta così severa pare ormai incamminata verso il Parlamento. Di fatto, diventerebbe possibile anche per gli illeciti fiscali più gravi il sequestro in prima battuta e, in via definitiva, la confisca dei beni per chi è semplicemente «indiziato» del reto. In particolare per ipotesi come reati come la “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. Ai “soggetti indiziati” di simili delitti verrebbero loro sottratti i beni “dei quali possono disporre, quando il loro valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si abbia motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

BASTA UN INDIZIO E PERDI TUTTO

Indizi. Non accuse provate. Non ci sarà bisogno di condanne definitive. Anzi, qualora l’assimilazione dei sequestri ai presunti evasori avvenisse davvero secondo lo schema già previsto per mafiosi ( e corrotti, da fine 2017), non sarebbe necessario neppure il rinvio a giudizio. Nel giudizio di prevenzione, parallelo a quello penale, non vigono i principi del giusto processo sanciti dalla Costituzione. Nei confronti dei presunti criminali tributari scatterebbero dunque violentissime limitazioni delle garanzie costituzionali.

EVASORI IN CELLA, I DUBBI DI ARDITA

Proprio l’eccentricità delle misure di prevenzione rispetto ai principi cardine del diritto penale appare, almeno al Movimento 5 Stelle, un valido motivo per applicarle anche in campo tributaristico. Un’anomalia che si traduce nell’impossibilità tecnica di includere tali provvedimenti all’interno di eventuali condoni, o di amnistie e indulti. Si tratterebbe di una svolta di una tale severità che persino un magistrato noto per la sua fermezza e intransigenza come Sebastiano Ardita fa notare come andrà comunque mantenuto un «criterio di proporzionalità nel rispetto dei valori della Carta». Certo, il togato eletto al Csm per Autonomia e Indipendenza, il gruppo guidato da Davigo, riferisce le sue perplessità soprattutto al carcere per gli evasori. Ma colpisce che persino un pm con il suo approccio culturale sia poco convinto dell’impostazione che la maggioranza sembra aver scelto.

Ardita comunque, in una intervista all’Adn- kronos, individua un profilo critico della linea panpenalistica in campo fiscale anche nel rischio paralisi per il sistema penale: «Verrebbe ingolfato da un fiume di processi che», dice, «produrrebbero pene detentive teoriche: cioè sanzioni che rimangono sospese o devono essere convertite in misure alternative». Ma poi proprio un simile risvolto che si nasconderebbe dietro lo slancio “general- preventivo” della maggioranza fa dire al consigliere del Csm che «la misura più adatta in questi casi, e anche la più proficua per l’erario, potrebbe essere la confisca», che prevede, appunto, «un procedimento agile e accelerato» e che renderebbe «veloce l’apprensione delle somme sottratte al fisco».

ALTRO CHE DEPENALIZZAZIONE

Al momento le misure di prevenzione sono parte di un tutto. L’idea è che una loro introduzione non debba escludere la maggiore facilità nell’applicare anche pene detentive alle più gravi fattispecie di frode fiscale. Il che genera un ulteriore paradosso. Se come segnalato da Ardita, includere nell’ombrello del processo penale una più vasta gamma di casi «ingolferebbe il sistema penale», va ricordato che proprio per scongiurare tale spauracchio era stata ipotizzata una linea uguale e contraria: un intervento di depenalizzazione, che avrebbe dovuto innanzitutto riguardare proprio i reati fiscali. L’ipotesi era stata discussa da Anm e avvocatura, che l’avevano proposta a Bonafede come soluzione condivisa per ridurre i tempi dei processo. Ipotesi accantonata. E ora sostituita con il suo esatto contrario.