La Siria è sul punto di precipitare di nuovo nell’abisso del caos e della guerra. La Turchia è determinata ad andare all’attacco della zona curda per creare un’area di sicurezza e per creare le premesse per riportare in queste aree siriane ad est dell’Eufrate centinaia di migliaia di rifugiati siriani che ora sono in Turchia.

Dopo l’annuncio del presidente Recep Tayyip Erdogan si attendevano le reazioni internazionali, e dopo un blando tentativo americano di coordinare un pattugliamento comune ( per un accordo di agosto i curdi si sono già ritirati di dieci chilometri dal confine turco), Trump ha deciso di ritirare i militari americani: «È il momento per noi di sfilarci da ridicole guerre senza fine, molte delle quali tribali. È il momento di riportare i nostri soldati a casa», ha twittato il presidente Usa, lasciando gli ex alleati curdi al loro destino.

Perché l’intrigo sta anche in questo: per la Turchia l’YPG, le unità di protezione popolare curde, sono terroristi che minacciano la sicurezza turca e sono uno dei bracci armai del Pkk, nemico storico di Ankara; ma invece negli ultimi anni proprio quei curdi- siriani ( oltre ai curdi iracheni) sono stati un elemento determinante nella guerra contro il califfato dell’Isis, costituendo la principale forza d’urto e a tal fine coalizzandosi con gli arabi della Siria settentrionale.

Sono quindi stati il partner più solido ed affidabile dell’alleanza occidentale, e quella che ha pagato il prezzo più alto. In cambio hanno guadagnato una regione autonoma nella Siria settentrionale, fuori dal controllo diretto di Assad, con cui pure dialogavano per trovare un equilibrio.

Ma alla Turchia questo “stato curdo” non poteva stare bene, e così il complesso mosaico siriano torna a rimescolarsi con cambi di alleanze e di posizioni, che però comportano sempre un duro prezzo di sangue. Le Forze democratiche siriane ( SDF), composte da curdi e arabi ( prevalentemente sunniti moderati distanti dal regime di Assad), hanno già risposto garantendo che non cederanno un millimetro senza trasformare in una guerra totale e in una lotta all’ultimo sangue la resistenza anti- turca. L’imminente offensiva turca prenderà probabilmente di mira per prima la città araba di Tel Abyad, a nord di Raqqa. Il che insieme al ritiro americano presterà il fianco a una serie di effetti a catena.

Il focus dello scontro che si sposterà a nord fra curdi e turchi potrebbe lasciare scoperte altre aree della Siria orientale, e di questo può approfittarne prima di tutto l’Isis per assestare qualche suo colpo e recuperare un po’ di terreno. E non è escluso che da sud anche le forze di Damasco e degli alleati di Assad colgano in un modo o nell’altro l’occasione per recuperare sovranità su almeno parte del territorio e soprattutto su alcuni campi di petrolio che ora sono sotto il controllo dell’Sdf.

Il che vuol dire che l’entità curda potrà finire ancora una volta compressa e accerchiata da numerose realtà rivali, e che gli equilibri sul terreno verranno ripristinati solo con le armi e il sangue, e per questo saranno ancora una volta precari e pronti a precipitare in una nuova ulteriore crisi.

In tutto ciò, poi, la credibilità degli Stati Uniti e degli occidentali esce sempre più malridotta, vista la totale inaffidabilità dimostrata nei confronti del più solido alleato della regione. L’Unione europea ha levato la sua voce per opporsi allo scatenarsi dell’azione militare e ha invocato una soluzione politica e diplomatica, ma è probabile che le sue parole restino inascoltate coperte dal frastuono dei cannoni.