Prudenza silenziosa, oppure colpevole silenzio: in ogni caso, sul fronte del Pd, la parola che si ripete più spesso è “no comment”. Di fronte allo scandalo che ha investito il Csm (con le dimissioni e sospensioni di cinque togati, dopo la rivelazione di cene per influenzare la nomina del nuovo procuratore capo di Roma), però, le voci che chiedono conto ai dem si accavallano. Agli incontri, infatti, le cimici installate nel cellulare del magistrato indagato Luca Palamara hanno registrato la presenza anche dei due deputati del Pd, Cosimo Ferri e Luca Lotti. Il primo magistrato, il secondo ex sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Entrambi, nomi forti della corrente renziana.

Eppure, l’unica informazione che filtra è di un incontro «per ascoltare le argomentazioni e la ricostruzione dei fatti» tra il segretario Nicola Zingaretti e Luca Lotti: quest’ultimo, convocato al Nazareno, ha «ribadito l’assoluta certezza di aver avuto comportamenti corretti» ; il Pd «ripete l’assoluta fiducia nell’indagine della magistratura». In sostanza, dunque, il Pd non prende alcuna distanza nè condanna ex ante il deputato renziano, come pure aveva chiesto a gran voce il neoletto parlamentare europeo ed ex procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.

Solitario nel suo lancio di strali contro i due colleghi di partito (e contro l’operato del governo Renzi, accusato apertamente di aver approvato il decreto per il pensionamento a 70 anni invece che 75 dei magistrati, per liberare posti da riempire con giudici fidati), ieri la linea dura è stata sposata solo da un altro campano di peso (nonché ex renziano): Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania è stato insolitamente laconico, ma ha definito le valutazioni di Roberti «del tutto ragionevoli, è una vicenda grave sulla quale non si può tacere e bisogna fare chiarezza nella maniera più rigorosa possibile». Anche questo, caduto nel vuoto.

Sul fronte dem null’altro si muove. Tutti silenti sulla scia del segretario Zingaretti, chiamato in causa in particolare dal Movimento 5 Stelle e dalla stampa tanto da dover precisare che l’incontro con Lotti non era un modo di dare «solidarietà» al parlamentare, ma serviva «solamente ad ascoltarlo». E, a chi fuori da Montecitorio gli ha chiesto del futuro dei due parlamentari, si è limitato ad aggiungere un «Per ora non ci sono indagati».

Dietro il silenzio dei vertici dem, tuttavia, si nasconde una tensione interna mai sopita dopo il congresso. Da un lato la sinistra Pd capeggiata da Zingaretti, dall’altro gli orfani di Renzi (anche lui silenzioso) che siedono in luoghi di peso in Parlamento. I primi prediligono la linea “del rigore”, come quella scelta per l’indagata Catiuscia Marini in Umbria, i secondi invece hanno sempre scelto l’approccio garantista e, anzi, si sono stretti a testuggine soprattutto davanti a inchieste inquinate da fughe di notizie (come questa, in cui i racconti delle cene trapelano da un’indagine per corruzione in capo a Palamara, che però riguarda presunti scambi di mazzette con un imprenditore siciliano).

Il garantismo davanti alle inchieste è tema caro ai renziani - che hanno pagato pesantemente lo scotto di indagini poi finite in archiviazioni - e Zingaretti lo sa bene. E forse proprio per questo il segretario dem ha scelto la prudenza e imposto a tutti il silenzio stampa: meglio rimanere in attesa di lumi dalla procura di Perugia che azzardare giudizi e rischiare di perdere traumaticamente un pezzo pesante del partito, che da tempo scalpita di fronte alla nuova gestione. La “pax” zingarettiana, per ora, punta a tenere tutti insieme, anche a costo di incassare qualche accusa. Lasciando spazio alle parole decise di Lotti, che continua a mostrarsi saldo nel dire di essere estraneo a qualsiasi reato. E suona quasi minaccioso quando dice che «alla fine di questa storia, statene certi, chiederò a tutti ( nessuno escluso) di rispondere delle accuse infondate e infamanti contro di me».