Com’è noto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha affidato ad avvocati e magistrati la riforma del processo. Ha sentito loro e poi ha tirato le somme. Il suo ddl è pronto. Forse, al suo “tavolo”, avrebbe potuto chiamare anche uno straordinario testimone diretto: Antonio Bassolino. Leader che più di tutti ha rappresentato la forza trascinante della sinistra. Fino alle bordate di un’indagine su presunte irregolarità nel ciclo dei rifiuti, da cui è venuto un processo, durato qualcosa come 16 anni. Solo lo scorso 22 maggio è arrivata la parola fine. L’ha scritta la Corte d’appello di Napoli: ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai pm contro la sentenza del Tribunale. Che è stata di assoluzione con la formula più piena possibile: il fatto non sussiste. Ecco, visto che a via Arenula si è discusso di come ridurre i tempi morti dei processi, avrebbero potuto sentire in audizione l’ex sindaco di Napoli e governatore della Campania.

Presidente, ma lei come fa a trattenere la rabbia?

La rabbia non serve. Serve una riflessione. Anzi ne servono tre. Una sui processi, una sul modo in cui i media li raccontano e una terza sull’uso che la politica fa dei processi. Forse è il caso di esaminare sia la questione giudiziaria sia anche e soprattutto quella mediatica e politica.

Partiamo dalla prima, dal sistema della giustizia.

Si è trattato di una lunga vicenda. La mia intendo. È iniziata nel 2003. Si è conclusa solo poche settimane fa, dopo 16 anni.

Verrebbe di rifarle la domanda iniziale, però vada avanti.

Dopo dieci anni dall’inizio delle indagini, nel novembre del 2013, vi è stata una sentenza di piena assoluzione. Si è trattato di una sentenza molto importante, dal punto di vista giuridico e anche civile. Ricostruiva con una straordinaria profondità tanti passaggi. Ha rappresentato i fatti con un’incredibile adesione alla verità. Forse avrei dovuto pubblicarla.

Se avesse voluto ricostruirli lei, quei fatti, non sarebbe riuscito a farli emergere in modo così efficace.

La forza di quella sentenza mi ha confermato nella convinzione di dover sempre avere fiducia nella giustizia, nella sua dialettica strutturata in diverse componenti: un’accusa e un giudice. Non solo per il contenuto ma anche per la scelta compiuta da chi ha scritto quella sentenza.

A cosa si riferisce?

Dal momento che erano trascorsi dieci anni, era intervenuta la prescrizione dei reati ipotizzati: per i magistrati di primo grado sarebbe stato più semplice prendere atto dell’intervenuta prescrizione, per il sottoscritto e per gli altri 26 imputati, senza approfondire il merito.

E invece?

I giudici hanno scelto di scrivere una sentenza impegnativa, di decine e decine di pagine. È evidente che avevano ascoltato e valutato ogni elemento. Ecco perché avrei dovuto pubblicarla. Si è trattato dunque di una sentenza di merito, di assoluzione piena, redatta nonostante i reati fossero prescritti. Sono stato ripagato, dal punto di vista strettamente giudiziario, di tante sofferenze.

Ma non è finita lì.

No. Il pm ha fatto ricorso in appello. Ma poiché era comunque intervenuta la prescrizione, l’inammissibilità era già apparsa chiara ai miei avvocati. Al massimo il pm avrebbe potuto mirare alla diversa rubricazione: da assoluzione nel merito ad assoluzione per prescrizione.

Un’ostinazione, quella del pm, degna di miglior causa.

Il cambio del titolo dell’assoluzione avrebbe lasciato un’ombra nell’opinione pubblica, è evidente. Dalla sentenza del 2013 sono dunque trascorsi altri 6 anni. Solo due settimane fa la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile il ricorso del pm. Altra cosa importante: si è pronunciata per l’inammissibilità la stessa Procura generale. L’esito dell’appello riconferma in tutta la sua forza la sentenza di pena assoluzione nel merito pronunciata in primo grado. Entro novanta giorni saranno depositate le motivazioni della Corte d’appello. La vicenda si conclude così dopo 16 anni con la piena assoluzione.

Sedici anni, presidente.

Ecco, la prima riflessione: è evidente l’ingiusta, e sottolineo ingiusta, lunghezza dei procedimenti giudiziari. È il primo problema che andrebbe affrontato con una riforma della giustizia. È chiaro a tutti come tempi tanto lunghi danneggino gli innocenti e aiutino i colpevoli.

Indiscutibile.

La seconda riflessione riguarda i media. Come sono ingiusti i tempi lunghi, così è ingiusta la sproporzione tra il rilievo dato dai media alle indagini, dunque alle ipotesi d’accusa, e lo spazio riservato poi alle assoluzioni. Mi riferisco alla carta stampata come alla tv. Nel mio caso tale sproporzione è stata evidente sia in occasione della prima assoluzione nel merito che della conferma arrivata in appello. Ringrazio chi, come Radio 1 Rai e alcune tv, ne ha parlato, ha trasmesso o pubblicato mie interviste in cui ho cercato di spiegare. Ma quell’impressionante sproporzione resta.

La terza riflessione?

È evidente il danno politico che è stato procurato in questi 16 anni. Io ho sempre mantenuto il mio stile, ma è chiaro che la vicenda è stata brandita dal punto di vista politico. Anche da forze politiche avversarie, certo. Ma ancor più di questo, che in parte è comprensibile, è stato particolarmente doloroso dal punto di vista politico il silenzio, il lungo silenzio del mio partito. Fino a un paradosso.

Quale?

Giacché c’era stato un silenzio sbagliato, del mio partito e di tanti suoi dirigenti, nei momenti difficili, vi è stato poi un silenzio inevitabile anche nei momenti belli.

Non sono riusciti a trovare la forma espressiva per reggere il peso dell’errore precedente, diciamo. Forse più che “la forma” bisognerebbe dire “la faccia”.

È stato un silenzio sbagliato perché tenuto da tanti dirigenti che conosco da una vita. Vengo dal Partito comunista, ne sono stato a lungo un dirigente, ho ricoperto importanti incarichi istituzionali, di sindaco innanzitutto e di presidente della Regione, sono stato tra i fondatori nazionali del Pds, dei Ds e del Pd. Sarebbero bastate due frasi. La prima: “Abbiamo fiducia nella giustizia”. È quella che io stesso ho sempre pronunciato anche nei momenti più duri. La seconda: “Al tempo stesso abbiamo fiducia in Antonio Bassolino, ci conosciamo da una vita e sappiamo bene che non può aver fatto nulla di male”.

Ma a furia di usare la giustizia come arma politica, non ne è uscita distrutta la politica stessa?

Ho detto non a caso che le riflessioni necessarie sono tre. Sull’ingiusta lunghezza dei tempi della giustizia. Sul meccanismo terribile per cui testate di orientamento politico anche opposto finiscono puntualmente per dare all’accusa uno spazio cento volte maggiore che all’assoluzione. E questo imporrebbe una grande battaglia culturale, da condurre innanzitutto nel mondo dell’informazione. Ma la riflessione serve anche nel mondo politico, dentro ogni partito e tra tutte le forze, e dovrebbe avere un punto fermo: in primo piano non devono esserci le vicende giudiziarie di questo o quell’esponente, ma la politica. La politica vera. Non è possibile rifugiarsi nei processi, usarli come unico argomento. Cosi si è fatto, e ora la politica non esiste più.