Zingaretti ha vinto la battaglia nei circoli, ora tocca alla “guerra” per riconquistare elettorato nel Paese. Roberto Morassut, parlamentare dem schierato con il Governatore del Lazio, è convinto del successo ma guarda al futuro: «Servono una Costituente e una lista aperta alle europee, senza simbolo del Pd».

E’ finita la fase dei circoli, tiri le somme. Il dato sostanziale è chiaro: Zingaretti prevale, nonostante questo dato non fosse scontato, perché non aveva, in partenza, un consolidato retroterra nazionale come gli altri principali candidati. È il segno che la sua candidatura funziona.

Nonostante non abbia raggiunto la soglia psicologica del 50%? Quella soglia, in realtà, è molto vicina. Virtualmente è già varcata se si guarda alle percentuali dei candidati che non rientrano in questa seconda fase. Poi Zingaretti segna una fase nuova e soprattutto incarna un’ipotesi di successo elettorale anche in condizioni avverse, viste le sue passate prove elettorali. Il nostro elettorato ha bisogno di credere in una possibilità di successo e di ripresa.

Ora inizia la fase delle primarie. Sarà più difficile di quella nei circoli. Sul terreno “esterno” Zingaretti ha più possibilità. Io, comunque, mi auguro che vi sia un esito definitivo direttamente dai gazebo, perché questo darebbe maggior forza.

La domanda è: la gente verrà a votare? Spero anche che l’affluenza sia corposa e che le primarie diventino un momento di ricostruzione politica. Ho fiducia, però, e vedo segnali di risveglio in tanti nostri elettori. Dobbiamo incoraggiarli con le idee e con i comportamenti: discutere, ma abbandonare le guerre sui numeri, le piccole ripicche sterili e, soprattutto, i personalismi.

Intanto, fuori dal Pd, il governo si trova in una congiuntura delicata, sia sul fronte economico che nei rapporti di maggioranza. La recessione dell’economia può contribuire ad uno sgretolamento delle illusioni prodotte dalle promesse elettorali e aprire uno spazio alle forze riformiste e democratiche. Ma può portare anche anche ad un aggravamento della crisi sociale e, paradossalmente, rafforzare populisti e sovranisti attraverso nuove iniezioni di rabbia e disperazione nel corpo sociale. A giudicare da certe rilevazioni statistiche l’esito è aperto.

Quale delle due sarà? Dipende, anche da noi, da come usciremo da questa stagione. Siamo su un crinale e non dobbiamo sbagliare condotta: una situazione che ricorda, per certi versi, i mesi drammatici che seguirono l’uccisione di Matteotti, con l’Aventino parlamentare delle opposizioni.

In quel caso, però, si finì con il fascismo definitivamente al potere. Le forze di opposizione erano scompaginate, ma ci fu un momento breve in cui il Paese temette la violenza fascista e si alzarono protesta e indignazione. L’assenza di un progetto alternativo e di una reale credibilità del vecchio ordine liberale, però, convinse il Re a dare fiducia a un Mussolini in difficoltà.

Fuor di metafora, cosa deve fare il Pd per non finire nell’irrilevanza? La gente si chiede e ci chiede se siamo capaci di dar voce al disagio del Paese. Dobbiamo dare il segno di un nostro sostanziale cambiamento. Sull’idea di Europa, ma soprattutto sul modo in cui ci presentiamo come soggetto politico, la nostra forma democratica, il nostro linguaggio e soprattutto le idee.

Ma, per cambiare davvero, il Pd non dovrebbe fare autocritica sui governi passati? Lo ribadisco: non rinnego affatto i nostri governi di questi anni. Rivendico persino la sostanza della stagione Monti e le ragioni del nostro sostegno di allora. Ogni tempo produce delle scelte quasi obbligate, ma occorre saper interpretare i cambiamenti di fase generale.

Qualche errore l’avrete pur commesso... Ci sono mancati il giusto modo, il giusto ascolto, il giusto linguaggio, per tradurre alla la società delle nostre idee, in gran parte giuste. Questo attiene alla forma politica: a un certo punto siamo diventati un partito chiuso, quindi arrogante. Un destino simile toccò al Psi di Craxi che diceva cose anche giuste ma non riusciva più di tanto ad essere amato.

Ma cosa vuol dire modificare la forma politica? Quando ormai quasi tre anni fa dissi di superare il Pd fino a ipotizzare un cambio di denominazione, eliminando la parola “partito” e lavorando ad un soggetto politico aperto più simile ad un movimento, non intendevo certo dire di archiviare una idea di chiara collocazione “di parte” nella battaglia politica. La parola “partito” oggi si colloca in un campo semantico non positivo, indipendentemente dal nostro sentimento. Intendevo e intendo dire che dobbiamo prendere atto di una nuova epoca nella quale siamo entrati e che impone di navigare in un mondo oggettivamente più fluido, per certi versi mutante, senz’altro veloce: dobbiamo avere valori costanti e forme mutanti o mobili.

Non sarebbe il congresso il luogo per farlo? Lo sarebbe, ma mi colpisce vedere, per esempio, come viaggi separato da iniziative egregie, ma che restano un po’ appese, come quella di Cacciari, rivolta agli intellettuali. Noi dobbiamo far incontrare popolo e intellettuali. E anche per questo serve una “costituente”.

Il partito dovrebbe aprirsi ad altri soggetti? Una “costituente” deve servire a fissare le linee di un programma fondamentale che oggi non abbiamo su molte questioni e che dobbiamo costruire in un grande processo che colleghi esperienze reali e popolari e forze intellettuali. Adesso la nostra discussione procede stancamente tra appelli metodologici a ciò che vorremmo fare o essere ma senza delineare una vera agenda riformista. Segnalo, per inciso, la discussione sulle riforme costituzionali degli articoli 71 e 116 promossi dalla maggioranza. L’iniziativa su alcune riforme di importanti istituti democratici è in mano loro. Noi giustamente le contrastiamo ma occorrerebbe una nostra idea, in particolare sulla riforma del regionalismo.

Lei è d’accordo, allora, con l’idea di Calenda di una lista unitaria alle europee? La lista unitaria o aperta è una scelta oggettiva. Ma attenzione a pensare che tutto si esaurisca in una operazione elettorale di “collazione” del ceto politico. La lista unitaria deve essere l’innesco di un processo profondo che entra nella società e ci fa cambiare come soggetto politico. Altrimenti ripetiamo la impalpabile esperienza della “Cosa 2” che dal Pds generò i Ds.

Provocazione: va bene anche se torna D’Alema? Non ho i paraocchi: se voglio creare un nuovo equilibrio, devo discutere con tutti e dividermi o convergere sulle idee con D’Alema, con Renzi o con chiunque altro. Ma, soprattutto, serve ascoltare il mondo reale che invia messaggi fecondi e pieni di speranza. L’ha detto bene Zingaretti, alla Convenzione del Pd di domenica: “Se vogliamo l'unità, prepariamo l'unità”.