A Roma si dice “caciara”. Vuol dire confusione, trambusto, chiasso assordante. Intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, di caciara ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni. Un polverone fittissimo, una sagra dei depistaggi, delle rivelazioni clamorose ma traballanti e sempre prive di conferme, delle ricostruzioni ardite basate però su sabbie mobili. Nel corso dei decenni nel “caso Orlandi” c’è passato di tutto: l’attentato al papa Giovanni Paolo del 1981 e l’attentatore Ali Agca, i Lupi grigi turchi e i servizi segreti dell’est, la banda della Magliana e il Banco ambrosiano di Roberto Calvi l’appeso, fior di cardinali tra cui l’allora assessore agli Affari generali della segretria di Stato vaticana Re e l’immancabile Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Dire pezzi da 90 è ancora poco.

Anche se la sparizione di quella ragazzina quindicenne ha tenuto banco per decenni sulle prime pagine dei giornali e in decine di programmi tv la realtà è che se ne sa pochissimo e quel poco che si dà spesso per acquisito è invece incerto. C’è stato davvero un sequestro, un rapimento finalizzato a chissà quale scopo? Nulla lo prova. Esiste davvero una connessione tra la scomparsa della cittadina vaticana, figlia di un funzionario della Santa Sede, che quella sera stava tornando a casa dalla lezione di musica a un passo dal Senato col suo flauto in borsa e quella di Mirella Gregori, figlia di un barista, scesa in strada per parlare con un mai individuato “amico” meno di due mesi prima e mai più ricomparsa?

Impossibile dirlo. E’ un’ipotesi ma frutto forse solo della suggestione. Le due ragazze avevano la stessa età, sono svanite misteriosamente nell’arco di poche settimane, alcune telefonate dei presunti rapitori avevano avevano collegato i due casi, ma erano impostori. Troppo poco per dirsi sicuri del nesso.

La sera di quel 22 giugno Emanuela aspettava l’autobus con due amiche in Corso Rinascimento, di fronte palazzo Madama. Però all’ultimo momento scelse di non salire: «Troppo affollato, aspetto il prossimo». Con la testa la ragazza quella sera stava altrove. Uno sconosciuto la aveva abbordata, le aveva proposto un lavoretto ben remunerato, pubblicizzare cosmetici durante una sfilata delle Sorelle Fontana. Era tentata, ne aveva già parlato al telefono con la sorella che l’aveva però sconsigliata, poi con le amiche, altrettanto contrarie e sospettose. Avevano ragione loro. La ditta di cosmetici in questione di quell’offerta non sapeva niente. In compenso da quelle parti girava da un pezzo un tipo furbo che rimorchiava ragazze e ragazzine con quella promessa a fare da esca.

Nei giorni successivi, quando la notizia corredata da foto era già sui principali quotidiani della capitale arrivano due telefonate, un ragazzo, “Pierluigi” e un uomo, “Mario”: il primo fornisce elementi credibili. Raccontano in telefonate distinte di aver visto la ragazza insieme a un’amica. “Mario” assicura che Emanuela se n’è andata volontariamente ma col progetto di tornare per il matrimonio della sorella. Nessuno li individua. Nessuno li trova.

Il caso esplode il 3 luglio, quando è il papa in persona a parlarne rivolgendosi ai rapitori, durante l’Angelus. La giostra inizia a girare vorticosamente solo in quel momento. Arrivano a raffica telefonate con richieste di scambio tra la ragazza e Alì Agca, il ' lupo grigio' che aveva sparato al papa. A chiamare è per 16 volte un uomo con marcato accento anglosassone, ma si fa sentire, meno spesso, anche un mediorientale. Fanno ritrovare nastri con una voce disperata che chiede aiuto. Ma non è Emanuela: è la registrazione di un film. Ancora nel novembre 1984 i Lupi grigi insistono e assicurano di avere nelle loro mani entrambe le ragazze.

L’affare monta, inevitabilmente si intreccia con le ombre addensate su Marcinkus, rinvia allo scandalo del banco Ambrosiano e all’uccisione di Roberto Calvi. Ma sono fantasie. Le telefonate dei Lupi grigi sono in realtà orchestrate dalla Stasi tedesca e servono a confondere le acque per stornare dai servizi segreti i sospetti di aver organizzato l’attentato al papa. Di elementi che autorizzino a ipotizzare qualche collegamento tra la bambina romana e il banchiere impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra non ce ne sono.

Nel XXI secolo Emanuela Orlandi torna al centro delle cronache grazie a una telefonata, anche questa anonima, che arriva al programma di Raitre Chi l’ha visto?. Suggerisce di «andare a vedere chi è sepolto nella basicilica di sant’Apollinare a Roma e allude a un “favore” fatto da Enrico De Pedis, “Renatino” uno dei capi della Banda della Magliana ucciso nel 1990, al cardinal Poletti. Che a Sant’Apollinare sia sepolto tra santi e papi proprio lui, il temuto Renatino, lo sanno tutti e quando, sette anni dopo, la tomba verrà aperta saranno ritrovati solo i resti del bandito.

Nel frattempo però si è scatena- ta una corsa in massa alla rivelazione. Antonio Mancini, “Accattone”, altro bandito della Magliana, ricorda di aver riconosciuto nel “Mario” che aveva telefonato subito dopo la scomparsa un bandito detto “Rufetto”, sodale appunto di Renatino. Ancora qualche anno e “Accattone” precisa: a rapire la ragazza era stata la banda, per farsi restituire dallo Ior i soldi investiti dai criminaloni attraverso l’Ambrosiano. A chiamare in causa Renatino era stata anche una sua ex amante, Sabrina Minardi, ex moglie di un calciatore della Lazio, Bruno Giordano.

La donna è palesemente un po’ sbroccata. Confonde le date e squaderna ricostruzioni inverosimili ma dà anche indicazioni reali. E’ lei a far scoprire l’immensa grotta sotterranea a cui si accede dall’appartamento di una sua amica, Daniela Mobili, nella quale sarebbe stata tenuta segregata Emanuela prima di essere uccisa dallo stesso Renatino. E la Bmw sulla quale, secondo l’improbabile teste, l’autista di Renatino, “Sergio”, avrebbe caricato la ragazza, portata al Giancolo già drogata dalla governante della Mobili.

Ma non parla solo la Magliana. Si affaccia il lupo grigio in persona, Alì Agca: rapimento per conto del vaticano, anzi no corregge cinque anni dopo, a opera della Cia. Comunque «è viva e tornerà». Si affaccia padre Anorth, esorcista principe del Vaticano: Emanuela è morta nel corso di un festino a base di droga e sesso. Conferma due ani dopo il pentito di mafia Calcara, a cui un non meglio precisato boss avrebbe rivelato che la ragazza era finita male nel corso di un festino e le spoglie erano state occultate in Vaticano. Di sfuggita spunta un agente del Sismi: «È viva, sedata in un manicomio in Inghilterra».

Impossibile dire quante di queste rivelazioni, mai supportate da elementi concreti, arrivino da mitomani, quante rispondano a logiche che con il caso Orlandi in sé non hanno nulla a che vedere, come il depistaggio organizzato negli anni ‘ 80 dalla Ddr, e quanto invece la confusione avesse il preciso obiettivo di rendere impossibile orizzontarsi, coprendo così i veri responsabili del fattaccio.

Forse l’elemento più inquietante, proprio per la sua distanza dall’affaire internazionale che è stato ipotizzato e raccontato per decenni, arrivò dall’avvocato della famiglia Orlandi Gennaro Egidio che raccontò a Pino Nicotri, il giornalista che più e meglio di tutti si è occupato del caso: «I motivi della scomparsa ella ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Il rapimento,, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no. La verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Ma non per questo meno amara». Peccato che l’avvocato sia morto prima di poter spiegare le sue sibilline parole,, anche se l’avvocato sospettava il coinvolgimento di una parente di Emanuela.

Ma se tra una settimana l’esame del dna dovesse dire che le ossa ritrovate nella Nunziatura di via Po sono quelle della quindicenne scomparsa 35 anni fa il coinvolgimento di qualche pezzo grosso del Vaticano diventerebbe di fatto certo, e la “caciara” di questi decenni si rivelerebbe tutt’altro che casuale.