«Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una Cortina di Ferro è scesa attraverso il Continente». La definizione incisiva, coniata da Winston Churchill il 5 marzo 1946, sarebbe stata ripresa infinite volte nei 43 anni successivi, prima che la caduta del Muro di Berlino, che in realtà sarebbe stato costrui- to solo 15 anni dopo il discorso del premier inglese, mettesse fine alla Guerra Fredda con la capitolazione dell’Unione sovietica, destinata a scomparire di lì a pochi mesi.

La formula di uso un tempo quotidiano, “Cold War”, è spuntata fuori di nuovo ieri. La ha adoperata il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Denunciando l’attività frenetica dei sottomarini russi nell’Atlantico, ha affermato che detta attività «è tornata ai livelli della guerra fredda».

E’ solo un modo di dire. La Guerra Fredda, almeno in tempi prevedibili, è irripetibile. Non fu il confronto tra due grandi potenze, o lo fu solo in parte. Fu lo scontro tra due modelli sociali contrapposti. Almeno da questa parte del Muro, in occidente, non richiese solo il dispiegamento di mezzi militari tali da distruggere l’intero pianeta, non fu solo faccenda di spie e di conflitti caldissimi combattuti da Usa e Urss per interposti eserciti in quello che allora si definiva “Terzo Mondo”. Richiese anche lo sforzo politico e sociale necessario per dimostrare che il modello occidentale permetteva di vivere meglio, poteva coniugare libertà e progressiva giustizia sociale. Non è un caso che la forbice tra ricchi e poveri, nel “Mondo Libero”, non sia mai stata tanto stretta quanto nel 1963, l’anno seguente alla crisi in cui maggiormente si rischiò il conflitto nucleare.

La Guerra Fredda fu la Guerra di Corea e la crisi di Berlino, fu la grande paura del 1962, l’estate dei missili a Cuba, e la grande paura dei primi anni ‘ 80 quando il botto finale arrivò davvero a un passo per un errore del sistema di avvistamento sovietico. Ma fu anche il Piano Marshall, che permise all’Europa di riprendersi dopo la catastrofe, e la consapevolezza di dover mitigare quanto più possibile l’ingiustizia sociale, pena la diffusione dell’ideologia comunista in casa, tra i lavoratori e i cittadini. Come in uno di quei giochi grafici che rivelano due disegni opposti a seconda del punto di vista, la Guerra Fredda si muta nel Trentennio Dorato 1945- 75, un’età tra le più felici della Storia. Un’epoca in cui il potere sconfinato acquistato oggi dai ricchi e dai potenti sarebbe stato impossibile.

La Guerra Fredda fu anche, a modo suo, un’epoca di pace. Merito di quello che ancora chiamiamo l’ “equilibrio del terrore” e dunque del troppo sottovalutato presidente Dwight D. Eisenhower, “Ike”, già comandante in capo delle truppe Alleate, inquilino della Casa Bianca dal 1952 al 1960. Il predecessore, Harry Truman, certo non un guerrafondaio, dava per scontato l’uso tattico delle bombe atomiche testate a Hiroshima e Nagasaki nel 1945. I piani di guerra prevedevano la possibilità di un uso limitato della bomba. Winston Churchill insisteva per adoperarla prima che l’Unione Sovietica si mettesse in pari quanto a potenziale distruttivo. Il generale MacArthur, comandante delle truppe a stelle e strisce in Corea, era deciso a usare l’atomica contro la Cina dopo le peggiore rotta della storia mili- tare americana, nel 1950. Non ci riuscì perché lo stesso Truman, subito dopo la fine della guerra e con una decisione assolutamente inusuale, aveva stabilito che la decisione sull’uso delle atomiche fosse delegata al presidente e sottratta ai militari, che fino a quel momento avevano avuto invece piena autonomia nel decidere quali armi usare.

Ma anche dopo la sostituzione di Douglas MacArthur le strategie dei due blocchi continuarono a basarsi sull’uso tattico delle bombe atomiche. Proprio Ike, nel 1955, dichiarò che quelle bombe erano armi al pari di tutte le altre e come tali sarebbero state considerate: «Non vedo motivo per cui non dovrebbero essere usate, esattamente come si userebbe una pallottola». Il motivo era esploso nel pacifico il primo marzo dell’anno precedente, il 1954. La “superbomba” testata ( non per la prima volta) dagli americani e già a disposizione anche dei sovietici quella all’idrogeno, si rivelò tre volte più potente del previsto, più o meno 750 volte più distruttiva di quelle sganciate meno di 10 anni prima sul Giappone. Non era più questione di “pallottole”. Churchill e, dall’altra parte della Cortina di Ferro, Malenkov colsero subito le implicazioni: la guerra nucleare avrebbe distrutto tutto e tutti. Eisenhower arrivò alle medesime conclusioni e le rese operative: ordinò che venissero messe da parte tutte le ipotesi di uso limitato delle armi nucleari per considerare un unico e solo scenario possibile. Quello della guerra totale.

E’ impossibile dire oggi se sia stato l’equilibrio del terrore, basato sulla decisione di Eisenhower, a impedire che la guerra passasse da fredda a calda in questa o quella occasione. Di certo non si rischiò il conflitto quando, il primo maggio 1960, un aereo spia americano Lockheed- U2 fu abbattuto nello spazio aereo sovietico. Quanto a spionaggio i sovietici erano sempre stati di gran lunga superiori agli americani, e proprio grazie allo spionaggio erano riusciti e recuperare rapidamente il ritardo nella corsa all’atomica. Di conseguenza l’aviazione Usa aveva deciso di usare aerei capaci di volare ad altissima quota per sapere quello che lo spionaggio non riusciva a scoprire.

L’aereo volava troppo alto per essere intercettato dai Mig sovietici. Fu raggiunto in compenso da un missile Sam e la Casa Bianca, convinta che il pilota non potesse essere sopravvissuto, inventò un elaborata favola che coinvolgeva la NASA per giustificare la violazione dello spazio aereo. Invece il pilota Francis G. Power era vivo e per scambiarlo con una spia russa, nella vicenda raccontata da Spielberg in Il ponte delle spie, gli Usa dovettero ammettere le loro responsabilità.

Rischi limitati anche nel 1961, dopo l’avvio della costruzione del Muro destinato a diventare il simbolo della Guerra Fredda, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, per fermare l’esodo dei cittadini dell’Est verso Berlino Ovest. In ottobre intorno a quello che era allora l’unico varco, Checkpoint Charlie, i carri armati a stelle e strisce e quelli con un’unica stella rossa andarono a un passo dal cannoneggiarsi a vicenda, innescando così una guerra mondiale.

Ci arrivarono anche più vicini, e stavolta direttamente con le bombe, un anno esatto dopo, quando gli aerei spia americani segnalarono la costruzione di basi missilistiche russe a Cuba. Kennedy, che aveva sostituito Ike alla Casa Bianca, ordinò il blocco navale intorno a Cuba. Per un paio di settimane, dal 15 al 28 ottobre, la guerra sembrò davvero a un passo. In parte la responsabilità della crisi dipendeva dal vero punto debole nell’equilibrio del terrore: il rischio dell’equivoco. Gli americani hanno dato per certo che le intenzioni di Kruscev andassero molto oltre il limitato quadro cubano fino all’apertura degli archivi di Mosca, dopo la fine dell’Urss. Si è invece scoperto che, dopo la fallita invasione della Baia dei Porci nel 1961, l’obiettivo del leader sovietico era davvero quello di mettere l’isola di Castro al sicuro da nuovi attacchi.

Il rischio di una guerra scoppiata per caso sarebbe tornato vent’anni dopo. Per due decenni, dopo lo shock di Cuba, la guerra era stata combattuta sul terreno, a volte col diretto coinvolgimento dell’una o dell’altra superpotenza, come gli Usa nel Vietnam e l’Urss in Afgahnistan, oppure appoggiando l’uno o l’altro contendente in Africa, o a colpi di golpe e repressioni feroci nei rispettivi “cortili di casa”, dal Cile alla Polonia.

All’inizio degli anni ‘ 80 la nuova strategia aggressiva messa a punto dalle amministrazioni Reagan-Thatcher, con il dispiegamento degli euromissili, riportò il confronto ai livelli degli anni ‘ 50 e oltre. In almeno un paio d’occasioni la guerra per sbaglio, nel quadro di quella tensione montante, fu davvero vicina.

Il 26 settembre 1983 il sistema satellitare sovietico riscontrò un missile in volo dal Montana, poi ne seguirono altri quattro. L’ufficiale di servizio Stanislav Petrov, ritenendo che si trattasse di un errore del sistema, non diede l’allarme come avrebbe dovuto. La guerra non scoppiò e a rimetterci fu solo Petrov, punito per non aver rispettato la consegna. Due mesi dopo un’esercitazione della Nato in Germania, l’Operazione Able Archer 83, fu presa tanto sul serio di spingere l’Urss a decidere l’attacco, salvo fermarsi all’ultimo momento. La vicenda, romanzata, è stata poi descritta nella serie Deutschland ‘ 83.

L’avvento di Gorbaciov, nel 1985, mise di fatto fine alla cosiddetta “seconda guerra fredda”, quella dei primi anni ‘ 80, ma segnò anche la fine dell’Urss. I festeggiamenti di allora si sono dimostrati nel prosieguo prematuri. Nell’est il tracollo dell’Urss ha portato una democrazia a dir poco discutibile. In compenso una classe vorace di nuovi ricchi, spesso composta da chi al momento del crollo aveva capitali a disposizione e non si trattava precisamente di figure specchiate, ha accumulato tesori sulle spoglie della ex Urss.

A ovest, senza più bisogno di fronteggiare la minacciosa propaganda rossa, parole come eguaglianza o giustizia sociale nemmeno si possono più pronunciare senza che scappi da ridere. Così il dubbio che la guerra fredda sia stata un’occasione perduta è difficile evitarlo. Poteva finire peggio, col gran botto. Ma se i due sistemi avessero proceduto assumendo ciascuno qualcosa dell’altro, libertà da una parte, giustizia dall’altro, anche solo per togliere argomenti alla propaganda nemica, poteva finire anche meglio. Molto meglio.