Altro che Ignazio Marino, il vero marziano del Pd è Gianni Cuperlo. Mentre gli altri si concentrano su tatticismi di cortissimo respiro lui azzarda analisi politiche, propone visioni, suggerisce paradigmi.

Onorevole, alla conferenza programmatica del Pd ha detto che se il centrosinistra oggi rischia di presentarsi diviso bisogna porsi degli interrogativi. E la domanda giusta non è «per colpa di chi?» ma «come si può riparare a un danno che rischia di guastare il futuro e il destino di tutti noi?» Dunque, ci sono ancora le condizioni per riparare il danno?

Lo spero anche se la strada è in salita. Il punto è che quando la sinistra si spezza quasi sempre vince la destra. Io non rimuovo gli ostacoli e neppure faccio appello al senso di responsabilità. Non è questo il tempo del “voto utile”. La strada è un’altra. Prendere atto che una frattura si è compiuta e capire su quali basi è possibile riaprire il cantiere di un centrosinistra largo, civico, inclusivo. È chiaro che per riuscirci servono generosità e quella nota di umiltà che ti fa scorgere la quota di vero anche nelle ragioni dell’altro. Mi lasci solo aggiungere che è soprattutto in questi passaggi che si coglie lo spessore di una classe dirigente.

E la classe dirigente del Pd non è stata all’altezza?

Tutti, complessivamente, non siamo stati all’altezza. Detto ciò il tema non è compilare pagelle e distribuire i peccati. Quando si consuma una scissione una parte di colpa ricade su ciascuno. Poi è evidente che chi sta alla guida ha sempre una responsabilità maggiore e in questi anni per tenere assieme l’equipaggio non si è fatto tutto ciò che sarebbe stato necessario fare.

Ma come si ricuce uno strappo? Chi dovrebbe fare cosa?

Servirebbe quella nota di umiltà che ti fa scorgere la quota di vero anche nelle ragioni dell’altro. E bisognerebbe non lasciar cadere le chance che ancora restano per correggere la rotta. Tagliare il traguardo dello ius soli, anche col voto di fiducia da parte del Senato andrebbe nel verso giusto. Come accogliere alcune richieste sulla legge di bilancio in materia di sanità, investimenti, occupazione, contrasto alla povertà. A quel punto, in un clima più sereno, si dovrebbe cercare un accordo su poche opzioni strategiche per un programma di legislatura e tentare così di ricucire ciò che gli ultimi mesi, e da ultimo lo strappo sulla legge elettorale, hanno logorato. Ripeto, non è facile, ma un’altra strada non c’è.

Intanto, anche Antonio Bassolino ha lasciato il partito che ha contribuito a fondare...

Ho letto le sue parole, credo di averne colto tutta l’amarezza, ed è un altro addio doloroso. Per la biografia di Antonio, il peso che la sua esperienza di governo ha avuto nell’ultimo ventennio, a Napoli, in Regione, al governo. E per l’autorevolezza della figura. Parlando qualche giorno fa alla conferenza programmatica ho fatto appello a non sottovalutare episodi come l’uscita del presidente Grasso. Nella vita di un partito che è prima di tutto una comunità di persone non vale il motto di Arbore, “meno siamo, meglio stiamo”. È vero l’opposto. Quando si apre una crepa nella diga - cito l’immagine di Graziano Del Rio - può anche non allagarsi la valle ma si incrina la fiducia e la forza verso il progetto nella sua identità. Non capirlo è assieme un atto di presunzione e di miopia.

Quanto peseranno le antipatie personali sulla possibilità di riunire il campo?

La politica è sempre anche impasto di passioni, sentimenti, legami umani. Viene però il momento in cui al centro bisogna mettere ciò che può unire e lasciarsi alle spalle i motivi legittimi di incomprensioni e rotture. Però attenzione, perché se il Pd, una forza nata per federare altri, dopo un decennio non è riuscito sino in fondo a federare sé stesso la ragione non è il carattere dei singoli ma l’incapacità di tutti noi di aggredire il problema fondamentale che era e rimane il cambio d’epoca nel quale siamo immersi.

Ha detto che se la sinistra si presenterà divisa «nessuno di noi potrà sentirsi assolto». Lei che colpe sente di dover sopportare?

Quelle che ho appena accennato, la consapevolezza che quando si spezza l’unità di un disegno ambizioso come quello che ha dato vita al Pd non è onesto scaricare l’errore solo su qualcuno. Sarebbe indice di una superficialità insopportabile ridurre ciò che è accaduto a un difetto di carattere. Tutti abbiamo un cattivo carattere. Ma non è una ragione sufficiente per invalidare la sfida di una sinistra rinnovata e vincente. A questo punto servirà la pazienza dei costruttori. Serviranno persone alla ricerca non di verità ma dell’ascolto di quanto di buono si muove tra il “dentro” e il “fuori”. Insomma siamo a un passaggio decisivo e ridurre le questioni aperte alla querelle tra maggioranze e minoranze interne al Pd non aiuta. Così come non serve alzare un muro verso la forza più grande e chi la guida, ma tanto meno ha senso riesumare il linguaggio e le categorie del tradimento.

A Napoli ha riportato il pensiero politico al centro del dibattito. Ha detto che serve «l’eresia di un pensiero che sfidi chi ha condotto le società a svendere l’anima su un altare pagano che hanno chiamato mercato». Sta chiedendo al Pd di farsi promotore di una critica al capitalismo?

Non lo chiedo io, è un’esigenza persino banale imposta dagli eventi. Alle spalle abbiamo la crisi peggiore della nostra vita. Una combinazione micidiale tra bolla finanziaria, ricaduta sull’economia reale, impoverimento di massa del ceto medio. E sullo sfondo una innovazione tecnologica che sta mutando profilo al mercato del lavoro e alla stessa etica del farsi comunità. La realtà è che è collassato il pensiero della destra, quello che negli ultimi tre o quattro decenni aveva pensato di sostituire allo scambio tra lavoro e consumi quello tra consumi e debito. Il vecchio ciclo keynesiano si era retto sull’equilibrio tra profitti e salari con lo Stato a regolare e erogare servizi e protezioni nel segno di una coesione oggi venuta meno. È il fallimento storico della destra che impone alla nostra cultura di attrezzare uno scambio e un equilibrio diversi e dobbiamo farlo consapevoli che dall’infarto del 2008 il capitalismo non si è ancora ripreso.

La comunicazione politica viaggia alla velocità di un tweet. Per concepire un’eresia ci vuole del tempo...

Ci vuole soprattutto un pensiero, possibilmente capace di traguardare il prossimo semestre. Lo dico perché la politica vive dentro un eterno presente dove si tende a ridurre ogni cosa all’istante, che si tratti della polemica con gli avversari o della discussione interna a noi. In questo senso la lingua dei tweet appare, ed è, più funzionale e pratica. Ma ciò non toglie che costringere le idee in un imbuto linguistico e teorico sia come curare la polmonite con l’aspirina.

L’era Blair si è chiusa da tempo ed è giunto il momento di fare autocritica. Corbyn potrebbe essere un modello per i partiti socialisti europei?

Clinton, Blair, Schroeder, Zapatero, Tsipras, Sanders… se ci voltiamo indietro la strada è lastricata di modelli che, secondo le stagioni, sembravano incarnare la soluzione dei nostri guai. La verità è che un modello vincente oggi non c’è. Molti argomenti di Corbyn, a partire dalla capacità di riavvicinare il Labour a una generazione di ragazzi profondamente delusa, vanno nella direzione giusta. Ma resto convinto che ogni paese debba misu- rarsi con la sua storia. Poi certo, ricostruire una identità comune della sinistra europea, aprendosi alla novità di forze e movimenti che questa crisi violenta ha partorito è la condizione per parlare con una voce unica pesando di più a Bruxelles e non solo.

Il Rosatellum non decreterà alcun vincitore. Né, pur volendo, sarà sufficiente un’intesa parlamentare con i partiti della sinistra per ottenere la maggioranza. Meglio formare un governo con Berlusconi che consegnare il paese a Grillo?

Governare con un pezzo della destra è stata in questa legislatura una necessità dettata dai numeri. Farla divenire una strategia vorrebbe dire cambiare natura al Pd. Anche per prevenire questo abocco avevo proposto di introdurre nel Rosatellum il voto disgiunto. Era il modo per aiutare il formarsi di una alleanza meno rigida. Ho letto le simulazioni di un esperto come Roberto D’Alimonte e fanno riflettere. Lui sostiene che per ottenere alla Camera una maggioranza di 317 seggi è necessario vincere nel 70 per cento dei collegi e al contempo sfiorare il 40 per cento nel proporzionale. Se è così tanto più si doveva fare tutto il possibile per non avere nei collegi due o più candidati del nostro campo. Ripeto, non dispero che anche questo errore si possa recuperare, ma servirà molta buona volontà da parte di tutti.

Mentre voi litigate, centrodestra e Movimento 5 Stelle si contendono il governo della Sicilia. Il vostro candidato Micari sembra fuori dai giochi. State perdendo il contatto con il Paese?

In Sicilia il vero rischio è pagare per intero il conto di quella divisione che dicevo. Per noi è una corsa ad handicap. Detto ciò non voglio fasciarmi la testa prima del voto. Micari è una personalità seria e i conti si faranno alla fine.

Quanto peseranno le elezioni siciliane sugli equilibri interni al Pd?

Immagino che avranno un peso sulla linea da seguire in vista delle elezioni politiche. Non ne faccio una questione di nomi ma di sostanza. Quel risultato potrebbe convincere anche i più riottosi che senza ricucire, rammendare, la tela di un centrosinistra di governo si apre la strada per una destra che parla un linguaggio incompatibile coi nostri valori. Finché avrò fiato in gola cercherò di battermi per impedirlo.

Parole sue: «La vera destra non è fatta di battute e di felpe, è fatta di pensiero e di grande teoria, è la destra che ha demolito lo scambio tra lavoro e consumi e ne ha sostituito un altro tra consumi e debito». Cuperlo, non è che lei è comunista?

A parte il fatto che se al sostantivo uniamo l’aggettivo “italiano” continuo a non ritenerla un’offesa, non sono io a sostenere quelle tesi ma una intera scuola di pensiero e ricerca sui danni della crisi e sulle vie per uscirne. Da Stiglitz all’ultimo bellissimo saggio di Mauro Magatti, passando per il recupero di quella economia civile che in Italia ha fondato le sue radici, per fortuna il mondo non è fermo sulle gambe come a volte capita alla politica. Sta a noi alzare lo sguardo e prendere atto che se molto è già cambiato, molto di più è destinato a cambiare in un prossimo futuro. Per questo conviene camminare con lo sguardo ben piantato in avanti.