Giovanni Valentini si considera un garantista da sempre. «Almeno dal 1972, quando per la Gazzetta del Mezzogiorno seguii la prima tranche del processo Valpreda insieme a Giampaolo Pansa, all’epoca alla Stampa, e al povero Walter Tobagi, che lavorava per il Corriere d’Informazione ». Poi arrivò la direzione dell’Espresso e la vice direzione di Repubblica. Ma a furia di non puntare il dito contro gli imputati dei grandi processi mediatici, si guadagnò l’appellativo di “Penna rossa”. «Confondevano il mio garantismo con una sorta di innocentismo. Ma io, dal caso Valpreda a quello Marta Russo, non sono mai stato un innocentista, non ho mai sostenuto l’innocenza di un imputato, mi son sempre battuto solo per il diritto al giusto processo. E Valpreda fu accusato di una strage che non aveva compiuto», dice. «L’esposizione al pubblico ludibrio di un imputato, che avrebbe diritto alla presunzione di innocenza in base a un principio irrinunciabile di civiltà del diritto, corrisponde a una condanna. E ha ragione chi dice che non si può parlare di “gogna mediatica”, perché la gogna era una pena che veniva applicata dopo un processo, mentre adesso lo precede. Il sistema giudiziario italiano non tutela in modo sufficiente l’imputato». È un pozzo di aneddoti Valentini, testimone privilegiato dei grandi casi giudiziari degli ultimi cinquant’anni.

Direttore, tra i casi di cui si è occupato maggiormente c’è l’omicidio Marta Russo, su cui ha anche scritto un libro, “Il mistero della Sapienza”. Mise in dubbio l’impianto accusatorio...

Io non ho mai sostenuto l’innocenza di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Ho espresso in modo civile e continente un’opinione: le prove, per come erano state raccolte erano incerte, tardive e contraddittorie. Sono i tre requisiti in base ai quali, secondo il codice di procedura penale, scaturisce l’assoluzione, perché l’accusa non è riuscita a dimostrare la colpevolezza dell’imputato.

Perché ha dichiarato in più occasioni di essere stato perseguitato dai due pm che seguirono il caso?

Mi hanno querelato più volte per diffamazione, anche per alcuni articoli apparsi su Repubblica, quando pubblicai una contro inchiesta in cinque puntate. Ma non ho mai scritto, det- to e pensato che i due imputati fossero innocenti. C’erano le condizioni minime per accusarli però i due inquirenti non sono mai riusciti a dimostrare la loro tesi accusatoria: l’omicidio volontario. Infatti Scattone e Ferraro sono sempre stati condannati per omicidio colposo, per il quale, in teoria, bisognerebbe cambiare il capo di imputazione, si dovrebbero produrre delle prove, non può essere uno sconto. Nel caso Marta Russo si vedono le principali storture del sistema giudiziario italiano, dove il pm è dominus assoluto delle indagini e le indirizza, le condiziona, le orienta e, a volte in perfetta buona fede, le disorienta. Di conseguenza, la polizia giudiziaria perde qualsiasi autonomia funzionale. Due o tre giorni dopo l’omicidio della povera studentessa, la Digos produsse un’informativa in cui si avanzava un’ipotesi del tutto diversa rispetto a quella dell’accusa: si sosteneva che il colpo fosse partito dal bagno disabili al pian terreno, non dalla sala assistenti.

E la perizia balistica?

Le perizie erano anch’esse contraddittorie. È normale, sia chiaro, non c’è da scandalizzarsi. Ma se non si raggiunge una certezza definitiva sull’origine dello sparo, sulle modalità e sul movente è difficile riuscire a dimostrare la tesi dell’omicidio volontario.

Crede che Scattone e Ferrano non abbiano avuto un giusto processo?

Il giusto processo deve garantire non solo l’imputato ma anche i cittadini. All’epoca c’erano i genitori di 200mila studenti della Sapienza particolarmente preoccupati per i loro figli. Non sapevano se all’università circolavano dei serial killer o dei terroristi. Il problema non riguarda solo i diretti interessati, riguarda tutta l’opinione pubblica. Per capirci, nella tesi accusatoria si ricordava che Scattone aveva sostenuto il servizio militare nei Carabinieri ed era in possesso di un ottimo libretto di tiro. Questo doveva essere un elemento determinante per dimostrare la volontarietà dell’omicidio. Lui però è stato condannato per omicidio colposo e il dettaglio della sua abilità nel tiro è sparito dal castello accusatorio per dimostrare una tesi opposta. Ma come è possibile che uno bravo a maneggiare le armi fa partire un colpo per sbaglio e uccide? Ciò non significa che fosse innocente, ma che la sua colpevolezza non è stata dimostrata.

Perché non venne riformulato il capo d’accusa?

Al di là del caso specifico, il problema sta nella contiguità tra pm e giudice. Una contiguità che non si materializza solo tra l’inquirente e il giudice finale, ma in tutti i gradi del processo, anche con il Gip e il Gup. Troppo spesso il giudizio si precostituisce prima del dibattimento e della sentenza.

Come si scardina questo circolo vizioso?

Trovo molto interessante la proposta emersa al congresso dell’Unione delle Camere penali: creare due Csm, uno per i pm e uno per i giudici. È una proposta garantista non solo perché garantisce il cittadino imputato, ma garantisce anche l’autorevolezza e l’affidabilità del magistrato.

Lei fu anche tra i primi a sostenere l’innocenza di Enzo Tortora...

Assunsi la direzione dell’Espresso il primo luglio del 1984, il mio predecessore era Livio Zanetti, collocato su posizione vagamente radical- socialiste. C’era una nutrita pattuglia di bravi giornalisti giudiziari, non mi faccia fare nomi, schiacciati su una linea giustizialista e colpevolista contro Tortora. A poche settimane dal mio insediamento, Marco Pannella chiese di venire a trovarmi. Ricordo che sulla mia scrivania c’era un cartello verde con la scritta: “Vietato fumare”. Marco ci rimase malissimo. E il solo fatto che fosse venuto a spiegarmi alcuni particolari sul caso Tortora fu sufficiente a suscitare una reazione di protesta, ci mancò poco che scattasse uno sciopero su iniziativa di quei cronisti che, in perfetta buona fede, si fidavano delle loro fonti sul caso Tortora.

Come fece a gestire una redazione contraria?

Ci volle un po’ di tempo e una lunga discussione ma, carte alla mano, riuscii a cambiare la linea del giornale. Verso la fine del processo pubblicai La colonna infame in allegato, come simbolo di questo errore giudiziario. Pochi giorni fa, la signora Scopelliti, vedova di Enzo Tortora, mi ha confidato di aver deposto una copia di quell’allegato nella bara del marito poco prima che venisse chiusa.