Ma la musica può incitare all’odio?

Chiunque ha visto l’indimenticabile Arancia meccanica di Stanley Kubrick potrebbe essere tentato di rispondere spontaneamente di sì. Assistere agli atti di violenza gratuita di Alex e dei suoi Drughi con la musica classica in sottofondo così come alle sequenze in cui le autorità procedono al lavaggio del cervello degli stessi soggetti violenti accompagnandosi con la Nona Sinfonia di Beethoven potrebbe condurre a una risposta errata e fuorviante. In quel film – come nel romanzo di Antony Burgess da cui era tratto – al termine del condizionamento rieducativo di Alex, il suo senso di nausea e malessere veniva associato non solo all’idea di violenza ma anche al suono di una certa musica.

E lì accade che la Nona sinfonia, tradizionalmente considerata una celebrazione estatica di fratellanza e di pace, viene paradossalmente legata, nell’immaginario dello spettatore, all’odio, al sadismo e alla sequenza dello stupro. Ma si tratta di un’operazione di secondo livello: la musica in quanto tale non può, ontologicamente, a nostro avviso incitare all’odio. È semmai, in quel caso come in tanti altri, il contesto generale della vicenda – oppure il linguaggio verbale che vi viene collegato – a condurre lo spettatore verso la sensazione di sentimenti di odio.

In realtà, la musica, come le espressioni artistiche pure, è portatrice immediata di comunicazione tra gli esseri umani, porta a condividere sentimenti di bellezza e stati d’animo universali. Non c’è bisogno di scomodare i grandi filosofi occidentali per sottolineare la funzione positiva, universale dell’arte musicale. Già nel mondo greco, infatti, alla musica veniva attribuito un enorme potere nel muovere e plasmare in positivo l’animo umano. Platone sottolinea la capacità dell’arte musicale di rappresentare e suscitare ( grazie a un principio mimetico) qualità morali o condizioni positive dell’anima attraverso parole, ritmi e melodie. E Aristotele attribuisce alla musica una capacità speciale di produrre quel tipo di purificazione che libera l’anima dalle emozioni pericolose, eccessive e negative, nota con il nome di “catarsi”. E sempre in tutta la storia della musica, la funzione dell’arte delle sette note ha avuto questa qualità indiscussa, quella di allontanare l’umanità dai sentimenti regressivi, bellicosi, violenti, di odio.

Basti pensare – per venire ai nostri anni – ai tanti concerti – degli U2, di Vasco Rossi, di Simon & Garfunkel – che begli ultimi anni si sono svolti e sono stati presentati proprio come alternativa all’odio, al terrorismo, alle paure. Dopo gli attentati terroristici degli ultimi anni, è stato sempre con dei concerti che si è risposto attraverso la musica leggera a un odio smisurato che ci ha gettato addosso il terrore, paralizzandoci i gesti e le parole. E non a caso il compianto cantautore canadese Leonard Cohen ebbe a dire: «La mia musica è naturalmente contro l’odio e la paura».

Come accade, allora, che a volte si tende a collegare alcune sinfonie o determinati brani a sentimenti violenti, conflittuali, bellicosi, razzisti o di odio generalizzato?

Pensiamo a una certa percezione, superficiale e del tutto errata, della musica di Wagner. «In una delle scene più suggestive di Apocalipse Now – ha scritto ad esempio il germanista Gian Enrico Rusconi – si assiste alla comparsa e all’azione di guerra di una formazione di elicotteri, immersi in un sonoro di musiche wagneriane. Molti spettatori, pur godendo filmicamente della combinazione azionesuono, hanno colto la malizia della citazione musicale: in effetti quella scena sarebbe piaciuta ai ‘ modernisti reazionari’ di Weimar e del Terzo Reich…». Ma torniamo così al fraintendimento di prima: è il contesto, l’impasto immaginario tra memoria visiva, connessioni culturali e passioni musicali ha creare l’inferenza. Che, nel piano musicale, è inesistente. La Cavalcata delle Valchirie di Wagner, infatti, è tutt’altro che una incitazione a sentimenti negativi o aggressivi. Semmai, una celebrazione romantica di valori spirituali e universali.

Ma, appunto, spesso di connette alla musica qualcosa che è invece a essa esteriore e che – in alcuni fenomeni da riflesso condizionato – conduce a una identificazione fallace.

Così, per passare a un altro capitolo, nella storia della stessa musica lirica non esiste un solo compositore che abbia puntato a veicolare nella sua opera sentimenti di odio. Esistono, questo sì, scritture per personaggi operistici estremamente negativi, ma la cui funzione va interpretata nel contesto generale dell’opera.

Cattivissimi e odiatori sono, tra i tanti, Jago nell’Otello di Giuseppe Verdi ( celebre la sua aria: «Credo in un Dio crudel”), il barone Scarpia nella Tosca di Puccini, il capo della polizia che perseguita, odia e uccide, oppure Lady Macbeth quale figura femminile negativa nell’opera ancora di Verdi. Ma, sempre, l’odiatore viene sconfitto, almeno moralmente, in tutti i libretti d’opera. Non si tratta mai, peraltro, di incitazione all’odio nelle melodie e nelle marcette degli inni nazionali o militari che, semmai, hanno il solo compito di compattare, di unificare un popolo. Si tratti della Marsigliese, dell’Inno di Mameli o di God Save the Queen, ascoltandoli tutto può essere evocato e trasmesso ma il sentimento suscitato è solo di fratellanza nazionale, nient’altro che quello.

Per avvicinarci a veri e propri fenomeni – più o meno espliciti – di incitazione all’odio nell’ambito musicale dobbiamo oltrepassare le stesse stagioni d’oro del jazz, del blues e del rock classico.

E dobbiamo riferirci a contesti più vicini a noi e sconfinare nell’ambito del Black e del Death Metal oppure di un certo rap troppo “politicamente scorretto”.

Ma, precisiamo, si tratta di una fenomenologia in cui non sono tanto le note e i suoni a determinare la valenza aggressiva e violenta quanto la cornice esteriore e, spesso, la particolarità dei testi. Due dimensioni che, a nostro avviso, con la musica in quanto tale non avrebbero forse nulla a che vedere.

Indubbiamente, occorre citare Marshall Bruce Mathers III, meglio conosciuto in tutto il mondo con

lo pseudonimo di Eminem. Il celebre rapper, produttore discografico e attore statunite nse, ha venduto più di 172 milioni di album nel mondo e quarantadue milioni di singoli digitali: un vero e proprio fenomeno commerciale, un primatista dello show business. Proprio per questo, al di là della sua musica, le ricorrenti accuse di omofobia, misoginia e razzismo per alcuni suoi testi possono costituire una delle fonti dell’identificazione – per noi sbagliata – tra musica e messaggi di odio. Ma, oggettivamente, i suoni c’entrano poco: sono i testi e il contesto dei suoi spettacoli a determinare il “messaggio”, oltretutto spesso ambiguo quando non contraddetto da ritrattazioni e precisazioni.

Forse, i testi delle band – per lo più scandinave – di Black e Death Metal potrebbero invece apparire come vere e proprie manifestazioni di odio nei confronti di varie realtà umane, tra le quali i cristiani, gli ebrei e, in alcuni casi, i gay. Questo in Europa, a partire dal gruppo norvegese dei Mayhem che nel lontano 1984 avviò il genere nel Vecchio Continente. E un fenomeno analogo c’è anche, e da prima, negli Stati Uniti.

Per venire in Italia, e nel rap meno commerciale, vanno segnalati i casi di Willie Peyote e di Banda Bassotti. Il primo canta brani in cui emerge una qualche forma di “odio” applicato al tifo calcistico. Come in Glik: «Faccio cadere i corpi a terra / non scrivo strofe / cronache di guerra / … Esproprio proletario ti entro in casa col crick / Fanculo i radical chic / restiamo hardcore». I secondi, invece, in Fuori i leoni, esprimono una requisitoria anticristiana: «Duemila anni fa al Colosseo / i leoni graffiavano ammazzavano / sbranavano i cristiani… Spettacolo, spettacolo / la gente vuol vedere / cristiani in processione / mangiati dalle fiere…». Comunque, ridimensionando la stessa discutibile carica di odio di questi testi, proprio in quanto un po’ tipici dei rapper in un genere in cui l’invettiva è la chiave testuale privilegiata, la loro stessa presenza dimostra che la musica in quanto tale non ne è la ragione e non può in alcun modo essere considerata una forma di espressione artistica in grado di trasmettere – a differenza del linguaggio scritto e parlato – sentimenti di odio e di contrapposizione violenta.

Ragionamento questo che, invece, conduce a una considerazione diversa ma per noi essenziale. C’è infatti anche una forma di odio, tipico di certe culture fondamentaliste e iconoclaste, nei confronti della musica in quanto tale.

Se, insomma, parlassimo dell’odio nei confronti della musica?

«Dottore perché non sento la musica?», è la domanda che la ragazza protagonista del romanzo Musica di Yukio Mishima rivolge al suo psicoanalista, da cui si reca per curare una sua serie di patologie ossessive legate alla sua frigidità. «Nell’attimo in cui alla ragazza – scriveva lo scrittore giapponese – veniva in mente il concetto di musica, la musica si spegneva. L’idea della musica spegneva la musica stessa». E anche lo scrittore britannico Ken Follet, raccontando nel suo recente saggio Cattiva fede le sue difficoltà adolescenziali col puritanesimo familiare, ha descritto così il suo rapporto con la sfera musicale: «La musica, però, rappresentava un problema... L’adolescenza di mio padre fu attraversata da una grave crisi: fu quando un insegnante di musica annunciò al nonno che suo figlio, Martin Follett, aveva le doti per diventare un concertista di pianoforte. Ma da quel giorno mio padre non prese più lezioni… In casa non avevamo televisore, né radio, né giradischi… Il rock’n’roll in ogni caso restava bandito». Anche per questo, concludiamo, la musica resta la principale alternativa a un universo egemonizzato dai messaggi di odio. Ascoltiamo e diffondiamo più musica, allora, anche di fronte al rumore di fondo dei nostri anni con tanti, troppi, messaggi di odio.