«La corruzione deve essere combattuta dalla politica. Guai se la magistratura si sentisse investita del compito salvifico di perseguire i fenomeni, invece dei singoli reati». Luigi Berlinguer, ex ministro dell’Istruzione ma anche professore di Storia del diritto e già membro laico del Csm, analizza il delicato rapporto tra politica e giustizia, «poteri che, se interferiscono uno con l’altro, generano una patologia del sistema democratico».

Professore, esiste oggi in Italia un conflitto tra politica e magistratura?

No, ma c’è il rischio che accada e, se così fosse, la democrazia entrerebbe in crisi. Il pericolo è connaturato al fatto che una parte dell’attività giudiziaria ha un risvolto politico inevitabile e, proprio per questo, è necessario riflettere a fondo su che cosa spetti alla politica e che cosa alla magistratura.

Che cosa spetta alla magistratura?

Le rispondo con un esempio. Il fenomeno più odioso di questa fase politica è la corruzione, il reato commesso da un attore politico che trae guadagno personale dalla sua attività istituzionale. Chi deve sanare il Paese da questo fenomeno? Non la magistratura, anche se può derivarne un contributo indiretto, è la mia risposta. Alcuni magistrati non sarebbero forse d’accordo, ma avrebbero torto.

Ma chi deve combattere la corruzione, se non il magistrato?

Il compito del magistrato è individuare il reato e perseguire il reo. Ripeto: il reo, non il fenomeno corruttivo. L’azione della magistratura deve rivolgersi a un soggetto, sia esso individuale o associativo, ma non a una patologia sociale. Guai se i magistrati si sentissero investiti di questa missione salvifica: deborderebbero dalla loro funzione. Risanare le istituzioni dalla corruzione è, per contro, una funzione squisitamente politica.

Dunque risanare le istituzioni è compito della politica. Ma, oggi, ha la forza per farlo?

Rifiuto il pessimismo dei luoghi comuni, secondo cui la politica non è in grado di migliorare se stessa. Tuttavia la politica va responsabilizzata, non commissariata. Ciò che bisogna fare è aumentare il tasso di consapevolezza dell’elettore, perché è il popolo a decidere le sorti della politica, non la magistratura. La politica deve crescere una nuova classe dirigente rispetto a quella che si è rivelata inadeguata, e i cittadini devono sentirsi investiti del compito di promuoverla.

E politica e magistratura non s’incontrano mai in un argine così stretto?

Può essere comprensibile una reazione al malcostume che spinga i magistrati a interferire con la politica, ma si tratta comunque di una patologia del sistema democratico. La strada è quella tracciata dalla Costituzione: l’articolo 27 stabilisce che il reato è personale e come tale va perseguito; e questo si coniuga con l’obbligatorietà dell’azione penale, per la quale il magistrato ha il dovere di perseguire reati, specifici e circoscritti. Alla politica, invece, spetta il compito di combattere i mali della società con le armi sue proprie, che non sono le sentenze.

Eppure, in un periodo di debolezza della politica, sembra quasi che la magistratura ne abbia ricopiato molti connotati. Penso alla deriva correntizia dei suoi organismi dirigenti.

Io, che ne ho fatto parte, considero la nascita di Magistratura democratica un grande evento culturale che ha contribuito al cambiamento del nostro Paese. In passato, le correnti più sensibili della magistratura hanno dato un contributo fondamentale, nel pieno rispetto della loro funzione giurisdizionale, all’adeguamento dei nostri principi giuridici in chiave costituzionalmente orientata. Tuttavia, considero la spinta correntizia in magistratura come figlia di un aspetto criticabile della nostra cultura: in Italia ci sembra naturale politicizzare tutto, e in ogni ambito creiamo correnti di destra e di sinistra.

Come spiega questo fenomeno?

E’ il frutto di un elemento storico: nel nostro Paese la politica ha spesso messo il becco in campi non suoi, anche se i partiti hanno assunto una missione salvifica di emancipazione culturale, soprattutto a sinistra. Oggi, però, assistiamo al fenomeno degenerativo che tende a politicizzare in modo estremo anche campi dove ciò non dovrebbe essere naturale. Disgraziatamente, tutto questo avviene mutuando perfettamente le stesse sfaccettature ideologiche della cultura politica. Un fenomeno, questo, inimmaginabile in altri stati europei, che hanno una storia democratica molto più lunga della nostra. Ricordo ancora lo stupore dei colleghi, agli incontri internazionali, quando constatavano la valenza politica del ruolo di giudice in Italia. Rimanevano allibiti di fronte al fatto che il Csm fosse diviso in correnti.

A proposito di scontri ideologici, l’istituto che è stato maggiormente al centro del dibattito pubblico recente è quello della prescrizione. Lei che cosa ne pensa?

La prescrizione è un istituto fondamentale del nostro ordinamento, perché riconosce agli individui la loro natura di esseri umani. Questo istituto, infatti, avvalora la funzione sanante dello scorrere del tempo: l’individuo non può essere sottoposto “biologicamente” all’azione penale e la prescrizione sancisce che, se lo Stato non è in grado di accertare in un congruo lasso temporale la colpevolezza, perde il diritto di farlo.

Il tempo come categoria del diritto, dunque?

Il tempo è la base giuridica della nostra civiltà: ricorda in qualche modo il brocardo romanistico, tempus regit actum. Prenda l’usucapione: chi possiede legittimamente una cosa non sua e la usa per un lasso di tempo, poi ne diventa proprietario senza compiere atti ulteriori. E’ il tempo che glielo concede, perché muta i diritti dei singoli. Così, nel diritto penale, se la colpevolezza non viene accertata in modo inequivoco e definitivo entro un certo periodo, il tempo cancella il reato. Lo stabilisce la legge: la prescrizione è causa di estinzione del reato. Il riconoscimento della storicità degli individui è una grande conquista di civiltà giuridica, perché impedisce che gli individui diventino “biologicamente” imputati. Del resto, il tempo è il fondamento anche della pena: la si sconta e il trascorrere del tempo sana la condotta delittuosa. L’ordinamento riconosce la finalità rieducativa della pena proprio perché il tempo fa mutare l’individuo il quale, una volta pagato il proprio debito con la giustizia, ritorna cittadino e si reinserisce nella società.

Eppure si può obiettare che, con la prescrizione, si favorisce l’impunità.

Sono consapevole che una cultura rigorista intenda la prescrizione in questi termini, perché in passato la politica ha davvero abusato del proprio potere per ridurre i tempi di prescrizione, con in mente questo obiettivo. Naturalmente, la durata della prescrizione è importante e va decisa in modo coerente per non lasciare spazio ad aberrazioni. Presentato in questi termini, tuttavia, l’istituto è interpretato al contrario.

Che cosa intende?

La prescrizione non sancisce l’impunità del cittadino ma la responsabilità dello Stato: è una severa condanna del sistema giudiziario che non è stato in grado per sua inefficienza di esercitare l’azione penale e di giungere a sentenza definitiva.

La prescrizione è strettamente legata al principio della presunzione di innocenza. Eppure, oggi, anche questo è messo in crisi.

La presunzione di innocenza è un magnifico principio di democrazia, che ha valore culturale prima ancora che processuale. Eppure consideri che ci sono voluti molti secoli perché si affermasse storicamente e, oggi, viene messo in crisi soprattutto dal cosiddetto processo mediatico. I media hanno una enorme responsabilità nel condizionare l’opinione pubblica in chiave giustizialista, veicolando la concezione che l’iniziativa giudiziaria sia già di per sé una condanna.

Perchè i media si sono gettati sulla giustizia in modo così famelico?

Perché il processo è come una rappresentazione teatrale: con la dialettica delle due parti, un giudice e la trattazione di vicende personali. Il processo è una storia narrata che piace in quanto tale, che essa si celebri in tribunale o in televisione. Il rischio, però, è quello che gli individui vengano condannati mediaticamente malgrado l’assoluzione giurisdizionale, e non c’è giustizia in questo. Si tratta di un dato della realtà di cui la politica e la magistratura devono necessariamente tenere conto nella loro azione presente e futura.

Ma è così semplice influenzare l’opinione pubblica?

In realtà questo è il sintomo di due elementi. Da una parte la società e e istituzioni hanno ancora tratti di ingiustizia marcata, perchè basta un’ipotesi di reato per suscitare reazioni indignate da parte della collettività, che si sente succube di un sistema iniquo. Dall’altra, dimostra come la nostra democrazia non sia ancora del tutto matura, perché non c’è sufficiente fiducia nelle istituzioni deputate a combattere questa ingiustizia. Rimane, infine, il fatto che colpevolizzare è infinitamente più semplice.

Il giustizialismo è più facile del garantismo?

Ma certo, perché non richiede del tutto la razionalità e il senso di responsabilità personale. La notitia criminis fa notizia perché eccita il probabile senso di ingiustizia della gente. E’ umano che questo accada, ma la conseguenza è la richiesta umorale di una reazione dura e soprattutto immediata rivolta all’ordine costituito. Sa di che cosa è l’anticamera questo? Dei regimi totalitari, come insegna la storia. Guai a cadere nella tentazione dei processi sommari, ovvero la massima forma di ingiustizia possibile che è lo sparare nel mucchio. E non importa se si colpisce il colpevole o l’innocente, basta che si sazi la sete della folla.

E come si fa a impedire che ciò accada?

Anzitutto rimanendo saldi nei principi di giustizia: i colpevoli vanno condannati e in modo più celere di come non si faccia oggi, ma sempre secondo le regole del diritto. L’unico modo per rafforzare la democrazia è far funzionare la giustizia, perché il popolo tocchi con mano che l’ordinamento tutela alla pari il debole e il forte.