Si può comprendere il mondo e ammettere di non riuscirci. Può farlo solo un grande filosofo. Biagio De Giovanni ha dalla sua non solo il pregio di entrare nella definizione, ma anche la luce di ottantacinque anni, compiuti ieri e segnati in gran parte dalla riflessione rigorosa e appassionata nello stesso tempo. Ne regala una sulla giustizia, e più precisamente sulla perdita di ogni equilibrio tra i poteri, la politica da una parte, «le Corti, le Alte Corti innanzitutto» dall’altra. Un intervento sul Mattino di sabato scorso mette in fila in un sol colpo l’urgenza di superare l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ineludibilità della separazione delle carriere, l’impossibilità di contrastare il «populismo giustizialista». Il caso vuole che siano anche le battaglie in cui s’impegna con tutte le forze da anni l’avvocatura. Il professore di Dottrine politiche, ex europarlamentare del Pci e oggi appunto editorialista di Mattino e Corriere della Sera, individua nella «invadenza della giurisdizione» un fenomeno caratteristico della crisi e una concausa della perdita di autorevolezza delle élites. Nel giorno in cui compie ottantacinque anni, è facile chiedere a un filosofo come De Giovanni di fingere la resa di fronte al caos, per trovare molte risposte.

Anche la magistratura può temere una perdita di consenso? E dietro il ritorno a una invadenza della giurisdizione nei confronti della politica si nasconde anche un timore, tra i magistrati, di perdere popolarità?

In prima battuta mi sentirei di respingere l’ipotesi. C’è sfiducia, scetticismo, disincanto e rifiuto in una forma così violenta nei confronti delle élites politiche che non si riesce a scorgere qualcosa di analogo che riguardi la magistratura. E anzi l’impressione è che mai come adesso l’azione dei magistrati si dispieghi a tutto campo, dalla frittura di pesce a fatti più consistenti. È un’invadenza che non ha precedenti, e che certo si inserisce in un processo iniziato con Mani pulite, passaggio che ha alterato la fisionomia stessa del rapporto tra poteri.

Capita però che alcune sentenze non soddisfino appieno l’attesa alimentata dal “populismo giustizialista”: a Roma una condanna a 20 anni anziché all’ergastolo, per un omicidio, ha scatenato un putiferio in aula, solo qualche giorno fa.

I casi estremi si verificano. Resta fermo un punto: sono le cosiddette élites politiche dominanti ad essere travolte da quella tendenza del senso comune che faticosamente continuiamo a individuare come populismo giustizialista. Renzi era leader da appena 3 anni eppure, come ho detto dopo l’esito del referendum, è stato interpretato come nuova casta. La vecchia, per converso, è diventata vergine, da De Mita a D’Alema. Ma c’è qualcosa di vero anche nel dissolversi della fiducia nei magistrati: oggi persino il giudizio penale si muove nell’incertezza della decisione. Prima si condanna, poi si assolve, sembra divenuta impalpabile persino la certezza del diritto. Anche questo canone delle vecchie società è crollato.

Non esiste insomma un potere che regga, in questa destrutturazione.

È possibile che la sfiducia nella magistratura ci sia in una forma più indiretta. Il dispregio verso l’élite politica resta però l’aspetto decisivo del nuovo ordine mondiale, chiamiamolo così, che si va delineando. Una tenuta si registra forse in Germania dove il sistema ha una forza formidabile, ma persino negli Stati Uniti capita che Hillary, ritenuta espressione dell’establishment, ceda a Trump, che non è nessuno, un uomo d’affari, eppure 60 milioni di persone nel Paese più potente al mondo l’hanno votato.

Si delegittima la politica: ma così il potere scivola nelle mani di altri soggetti, le élites finanziarie per esempio.

Non c’è dubbio. Nel 2008 abbiamo assistito a una prima grande crisi della globalizzazione, di natura finanziaria, ora siamo nel pieno di nuova crisi, politica. E una fenomenologia di questa fase è l’invadenza delle giurisdizioni.

Qual è il meccanismo preciso che spalanca le porte a questa invadenza?

Nessuno è in grado di governare la complessità del mondo ed emergono poteri indiretti, non legittimati. Nell’intervento apparso la settimana scorsa sul Mattino segnalo anche il predominio delle Alte Corti sui Parlamenti. Che può sembrare un grande fatto di civiltà, e in parte lo è: ma se una Corte costituzionale prevarica il potere legislativo, si arriva alla distruzione dell’autonomia della politica.

Lei sostiene che si tratta di un pericolo sottovalutato.

Siamo su un crinale che visto nel suo insieme deve necessariamente preoccupare, e molto. Nello specifico si tratta di un tema delicatissimo, di cui si parla con frequenza nel resto d’Europa ma non in Italia, per timore che il solo accenno possa fraintendersi come volontà di intaccare le prerogative della Corte costituzionale.

La causa decisiva di questo squilibrio è nella perdita di autorevolezza della politica?

Sicuramente, e temo si tratti di uno squilibrio non rimediabile a breve.

Perché?

La delegittimazione della politica innesca un circolo vizioso che peggiora la qualità della classe dirigente e induce ulteriore delegittimazione. È veramente difficile che ora come ora una persona di spessore si impegni in un ruolo politico o amministrativo, sapendo che al primo stormir di foglie l’obbligatorietà dell’azione penale entra in campo, e arrivano i pm, e arriva la Guardia di finanza... Non è che voglio sottovalutare il grado di degenerazione corruttiva che c’è in Italia, non è questo il punto, ma se i pm oltrepassano ogni confine, mi domando chi ancora possa decidere di mettersi in politica, se non un disperato in cerca di lavoro, per non dire di peggio. Chi è che si va a impegnare in un’attività amministrativa, in condizioni simili? È un pasticcio gigantesco, siamo di fronte a un caos difficile da descrivere, figurarsi a volerlo dominare.

Non è che i cosiddetti privilegi della casta, dai vitalizi alle immunità, sono in fondo garanzie a tutela di chi nel dedicarsi alla politica mette a rischio il proprio ruolo sociale?

Non c’è dubbio che sia così. E aggiungo: nel Parlamento di oggi c’è ben poco che corrisponda alla condizione di un’assemblea elettiva nazionale, i deputati sono cani sciolti, non sopravvive più alcuna struttura mediana che garantisca l’effettiva espressione della sovranità popolare. E a proposito di garanzie, fino ai primi anni Novanta era necessario ricorressero condizioni davvero molto particolari perché un’assemblea parlamentare potesse perdere un proprio componente. Il che non aveva a che vedere con un privilegio abusivamente autoassegnato da una casta di impostori, ma con il fatto appunto che il Parlamento è espressione del popolo sovrano, e in quanto tale la sua collocazione è sacra, va tutelata, fino a un certo limite che sia in armonia con lo Stato di diritto. Ma sfido a dire che le norme sull’immunità non lo fossero.

Lei ha scritto: “La politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori”. Oltre all’invadenza della giurisdizione, c’entra anche la retorica anti- casta?

È un’ulteriore elemento che mette in discussione la qualità della classe dirigente. Intendiamoci: il fenomeno di cui parliamo non esiste solo in Italia, segna l’intero Occidente, come ricordato a proposito di Trump, anche se da noi assume un carattere di gravità eccezionale. Il tratto generale della crisi delle élites politiche, che si vede non solo in Italia, è nell’impossibilità di cogliere un punto di mediazione tra globalismo sovranazionale, cosmopolita, da una parte, e le appartenenze, le identità, dall’altra.

In che modo questo spaesamento ci porta alla crisi della rappresentanza?

Innanzitutto è in questo vuoto che si accresce il peso di poteri diversi, da quello finanziario al potere giudiziario. Ma la risposta in sintesi è nel caso a noi più vicino: l’Europa si è dimostrata incapace di governare la complessità della crisi finanziaria e politica che si è affacciata nel 2008. Noi non possiamo limitarci a descrivere con tono disgustato i critici delle élites, dobbiamo anche criticare le élites stesse. Non possiamo ignorare cioè le ragioni del cosiddetto populismo, lo scollamento complessivo tra governanti e governati. Non è che tutto sia riducibile alla cattiveria o alla superficialità di chi alimenta la propaganda antisistema: è impossibile negare il fatto che non ci sia una cultura politica in grado di governare la complessità di questa crisi.

Il che non è un giudizio opinabile: è un fatto.

Be’, abbiamo davanti un’intera generazione distrutta. E appunto non è che si può risolvere tutto con il dito puntato contro i populisti brutti, sporchi, cattivi e urlanti. Dentro quel buio ci sono delle ragioni, non è che nasce dal nulla. Nasce dal fatto che nessuno, tantomeno le élites, riesce a trovare le passerelle di passaggio dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale.

Lei sul Mattino individua l’urgenza di una riforma della giustizia, e precisamente due passaggi: superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. La prima delle due questioni non sarebbe perfetta, come terreno di incontro tra politica e magi- stratura per una riforma, diciamo, concordata dell’ordinamento giudiziario?

E sì che lo sarebbe, naturalmente, ma abbia pazienza: davvero possiamo pensare che ci sia una politica così autorevole da poter sollevare il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prendiamo ad esempio il governo appena sconfitto dal referendum, che pure qualcosa provava a farlo, ma che proprio sulla giustizia non è riuscito a muovere alcuna delle questioni decisive di cui parliamo. Penso al ministro, Andrea Orlando, a questo giovane pure così dinamico, che è riuscito a fare dei passi significativi su un tema difficile come il carcere: ecco, come mai anche lui su punti come obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere non ha detto niente per tre anni?

Ha detto, per essere precisi, che non c’erano assolutamente le condizioni minime perché si potesse anche solo discutere di temi del genere.

Appunto: alludeva evidentemente al fatto che se ci avesse provato avrebbero subito detto ‘ ecco gli amici dei corrotti stanno provando a derubricare l’obbligatorietà dell’azione penale’. Non è che si sarebbe riconosciuta la necessità di razionalizzare l’arbitrio.

Non c’è margine di discussione, nel senso comune si è diffuso un riflesso condizionato che stronca in radice ogni tentativo su questo fronte.

Nessuno vuol negare il rischio che superare l’obbligatorietà schiuda il rischio di un controllo della giurisdizione da parte dell’esecutivo, come avviene in Francia: eppure deve esserci una diga al potere assoluto dei pubblici ministeri. Qui a Napoli è girata la notizia di una misura chiesta dalla Procura, e negata dal gip, in cui l’ accusa di corruzione si basava sul fatto che l’indagato offrisse spesso alla controparte caffè e cappuccini.

Considerare corruttivo il pagamento di un caffè a Napoli è oggettivamente una bestemmia, senza dover scomodare Luciano De Crescenzo.

Nel ridicolo farsa e tragedia si mescolano sempre.

Figurarsi se esiste un margine per discutere di separazione delle carriere.

Non c’è possibilità. Dovremmo trovarci con una classe dirigente politica talmente autorevole, dotata di una tale legittimazione da essere in grado di sfidare anche l’ordalia che verrebbe inevitabilmente scatenata dall’Associazione nazionale magistrati. La quale arriverebbe a forme di contestazione estrema, allo sciopero, iniziative gravi che un ordine giudiziario non si dovrebbe consentire. Ecco, possiamo dire che quando ci troveremo con una classe politica in grado di inoltrarsi su un terreno così accidentato allora potremo dire di essere usciti dalla crisi.