Venti aprile 1999, ore 11.10, Eric Harris e Dylan Klebold attraversano l’atrio del liceo Columbine di Litteton (Colorado) come due angeli sterminatori.

Il volto coperto dal passamontagna, guanti di pelle e mantello nero, si muovono con estrema calma, con sé hanno tre borsoni, all’interno l’arsenale di un reggimento dell’esercito: pistole, fucili a pompa, mitragliette, carabine, coltelli da caccia e 89 esplosivi. Per sviare l’attenzione della polizia hanno piazzato una bomba in un campo a circa cinque chilometri dal liceo che deflagra puntuale alle 11.14.

A quel punto due adolescenti ( Harris ha 18 anni, Klebold 17) scivolano lungo il corridoio principale, entrano nella caffetteria, impugnano i fucili a pompa e iniziano a sparare su ogni cosa che si muove: sono le 11.19. La prima vittima si chiama Richard Castaldo, stava facendo colazione con un’amica che rimane ferita gravemente. Per fortuna i due ordigni artigianali al propano che hanno lasciato in due angoli della caffetteria non esplodono, se l’avessero fatto avrebbero distrutto un’intera ala dell’edificio.

Si dirigono verso la biblioteca che a quell’ora è affollatissima e le raffiche selvagge uccidono altri 10 giovani, un’onda di panico scuote il liceo, gli studenti cercano le uscite tra le urla, altri si nascondono sotto i banchi o nei bagni mentre i due continuano il loro tiro al bersaglio. A volte vuotano i caricatori sui corpi rannicchiati, altre simulano l’esecuzione e poi tirano avanti, in un sadico gioco del gatto con il topo.

Uscendo dalla biblioteca Eric, il “cervello” della carneficina, si trova di fronte John Savage, un amico di infanzia che gli chiede tra le lacrime cosa diavolo stesse facendo: «Nulla di che, sto solo uccidendo delle persone». Poi gli ordina di correre a casa, risparmiandogli la vita.

Non avrà la stessa fortuna Cassie Carnal: «Credi in Dio?» le domanda Eric puntandole una pistola alla tempia, la ragazza risponde di sì e lui la fredda con un colpo. Il rinculo dello sparo gli spacca il naso, completamente insanguinato smette di sparare e ritorna con il suo compagno in caffetteria, lanciano diverse granate, un fumo nero avvolge si intrufola nelle aule e negli spazi comuni. Alle 12.08 Eric Harris si tolgono la vita. La mattanza dura in tutto 49 minuti, oltre ai due killer le vittime sono 13, 12 studenti e un professore, decine i feriti. I fatti di Columbine sono una linea d’ombra nella recente storia americana, la prima strage scolastica precipitata nella ribalta mediatica, la prima di una macabra serie che passa per i massacri di Virginia Tech, Parkland, Newtown solo per citare i più cruenti. Chi quel giorno era incollato alla tv ricorda le immagini della scuola riprese dall’elicottero, le sirene della polizia, i volti insanguinati dei feriti, i pulmini dei network televisivi giunti sul posto quando tutto era già finito, le raggelanti testimonianze dei sopravvissuti. Nelle settimane seguenti i media, i politici, gli esperti si interrogano sul perché Harris e Klebold hanno commesso quella strage, esibendo un vasto campionario di luoghi comuni e di sociologia da rivista patinata. La colpa era dell’hard rock, musica di cui i due giovani sono fanatici, specialmente il “stanico” Marilyn Manson. O forse dei videogame, altra loro grande passione, in particolare di Doom uno dei primi “sparatutto” in 3D che all’epoca era giocato da milioni di ragazzi in tutto il pianeta.

C’è chi ha evocato l’appartenenza a qualche immaginaria gang giovanile come l’improbabile “mafia del trench”, chi ha addirittura tirato fuori l’ideologia nazista, fuorviato dal fatto che l’attacco è avvenuto nel giorno del compleanno di Adolf Hitler. Per non parlare delle dissertazioni sul bullismo che i due avrebbero subito, sull’emarginazione sociale, sul rancore e la rivalsa. Niente di tutto questo. I due ragazzi non erano degli esclusi, frequentavano la scuola con profitto e avevano alle spalle due famiglie “normali”.

Come racconta il giornalista canadese Dave Cullen, autore dello splendido Columbine, la realtà è «molto più semplice e molto più sinistra» : Eric e Dylan hanno ucciso per il semplice gusto di farlo, odiavano il mondo senza una ragione precisa e volevano divertirsi ad annientarlo. E il “mondo” per loro era rappresentato da qualche manciata di persone: «Voglio strappare la gola a qualche matricola con i miei denti come un barattolo pop. Strangolarli, schiacciare la testa, strappare loro la mascella, spezzare le braccia a metà, mostrare loro chi è Dio», aveva scritto Eric sul suo diario che è un inquietante viaggio tra nichilismo e disagio mentale. Dei due Eric era il più estroverso, il più esaltato, al contrario Dylan entrava e usciva dalla depressione, tormentato dall’idea di essere un fallito nonostante provenisse da una famiglia benestante e fosse molto amato dai suoi genitori: «Capisco che Dylan sia stato descritto come un mostro, ma per me rimane il mio bambino amorevole e gentile come è sempre stato con noi», disse la madre in un’intervista qualche anno più tardi. La loro coppia funzionava proprio perché molto diversi uno dall’altro, ma entrambi uniti dall’idea di «uccidere più persone possibili», già le “persone”, l’oggetto fittizio e in fondo intercambiabile del loro odio. Alcuni mesi prima del massacro avevano anche girato e interpretato un cortometraggio, Hitmen for Hire,

in cui si fingevano dei sicari pagati dalla mafia. Il video è ancora oggi disponibile su youtube.

L’oscillazione continua tra immaginazione e realtà, la fuga nel delirio di onnipotenza, la pianificazione, minuziosa, ossessiva delle stragi, sono tutti elementi che hanno caratterizzato i massacri scolastici successivi a Columbine, legati tutti dallo stesso filo di sangue.

Molti dei quali ispirati direttamente dai killer di Columbine. Seung Hui Cho, il 23enne di origine coreana che ha ucciso più di trenta studenti alla Virginia Tech nel 2007, prima di suicidarsi ha ricordato proprio Harris e Klebold definendoli «due martiri».

Martiri senza una causa, soldati di un esercito invisibile e mimetico che coltiva il suo lato oscuro negli anfratti della normalità, nei sottoscala delle villette di provincia, quelle con la cassetta delle lettere dipinta di rosso, la bottiglia di latte che brilla davanti la porta, gli scoiattoli che saltellano felici nel giardino e non a caso teatro di tanti film dell’orrore, metafora rovesciata del sogno americano che si trasforma in incubo. Ma anche pedine di un inesorabile meccanismo di emulazione che nell’ultimo ventennio ha inaugurato questo sanguinoso genere di omicidi di massa.

Come fa notare Cullen, che è andato a spulciarsi le statistiche «ogni strage scolastica che ha avuto forte copertura mediatica è seguita da un evento simile entro due settimane. La gran parte di questi omicidi avviene su piccola scala e quindi non fa notizia».