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VINCENZO IAQUINTA
«Finché non ammetteranno la verità su mio padre la mia voce non smetterà di urlare la sua innocenza, perché da ora io sono Giuseppe Iaquinta, condannato da innocente». La voce di uno degli eroi di Berlino è spezzata dalla commozione. Parla lentamente, con la bocca secca di chi è emozionato e sofferente insieme, per raccontare «non la mia verità, ma la verità». Dopo la sentenza d’appello del processo “Aemilia”, sulle infiltrazioni della ‘ ndrangheta in Emilia Romagna, Vincenzo Iaquinta torna ad urlare la sua rabbia e il suo dolore. Non per se stesso, che pure è stato condannato ad un anno ( in primo grado a due), pena sospesa, per la mancata custodia di un revolver Smith & Wesson calibro 357 magnum, di una pistola Kel- tec 7,65 Browning e di 126 proiettili, ceduti, secondo il pm, al padre al quale, fin dal 2012, un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia ne aveva proibito la detenzione. Ma proprio per suo padre, in carcere con l’accusa di essere una figura strategica delle cosche emiliane legate al clan Grande Aracri di Cutro. Per i giudici del primo grado, che lo avevano condannato a 19 anni ( condanna ridotta a 13 anni in secondo grado), «grazie alla sua brillante carriera di imprenditore edile, alla sua incensuratezza, alla disponibilità di denaro e alla positiva immagine pubblica del figlio Vincenzo, noto giocatore della serie A di calcio e campione del mondo, rappresenta una delle figure maggiormente importanti, strategiche, all'interno del sodalizio criminoso», spiega la sentenza. E ciò in quanto uno come Giuseppe serviva alla cosca «per elevare l'immagine del gruppo e renderla presentabile e affidabile agli occhi del mondo imprenditoriale, politico e, in generale, sociale». Falsità e accuse prive di fondamento, per il figlio Vincenzo. Che sui social si sfoga con un videomessaggio, nel quale ad accompagnare la sua voce c’è una foto che lo ritrae con indosso la maglia dell’Udinese, mentre guarda, sorridente, gli occhi di suo padre, altrettanto felice.
«Fino a qualche anno fa ero un campione del mondo, oggi con mio padre Giuseppe sono vittima della giustizia italiana. Nella mia vita non avrei mai pensato di dovermi difendere da un’accusa tanto infamante, perché di questo si tratta». Inizia così il messaggio, con il quale il calciatore chiede di mettere da parte ogni simpatia o antipatia calcistica e di pensare a quella che sarà la sua nuova battaglia: quella per la verità e la giustizia.
Iaquinta parla di «un padre onesto, innocente, che viene viene accusato senza nessuna prova, perché è estraneo alle accuse». E sostiene che a dirlo siano le stesse indagini e i fatti emersi durante il processo. Non una prova, sostiene, nessuna certezza granitica della sua collusione con la ‘ ndrangheta. Diversamente dicono le sentenze, che collocano Giuseppe Iaquinta in una posizione strategica per le cosche. Il figlio, però, non vuole arrendersi, definendosi «responsabile moralmente nel dover difendere l’onestà di mio padre» e «per i miei quattro figli, che non possono vivere in un mondo che si nutre di ingiustizia». Al punto da parlare di «accanimento giudiziario» e di una vita distrutta «senza aver commesso quello di cui viene accusato». Il padre, attualmente, si trova in carcere. Una figura importante per il calciatore, che sul suo profilo Instagram condivide diverse sue immagini, come quella con la coppa del mondo tra le mani, ma anche quelle della madre. E parla anche di lei, venuta a mancare lo scorso anno a soli 56 anni, stroncata dal dolore, a dire di suo figlio. La sua battaglia, dunque, è anche per lei, «che si è lasciata morire», ma anche per tutti coloro che, stritolati da una giustizia iniqua, non hanno voce. «Tanti non hanno un potere mediatico come può averlo il mio cognome», specifica, decidendo di lottare per tutti. Per poi rivolgersi ai giornalisti, chiedendo un’informazione all’altezza e non solo urlata, alla caccia di scoop che muoiono presto ma le cui conseguenze durano a lungo. Una controindagine, insomma, che metta in evidenza le contraddizioni relative alla posizioni del padre. «Perché l’informazione è importante - sottolinea - ma non può basarsi solo su un titolo per attirare l’attenzione».
Già nel 2018, dopo la sentenza di primo grado, il calciatore aveva esternato tutta la sua amarezza, riconducendo le condanne ad uno scontato pregiudizio contro i calabresi. «Ho vinto un mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Ma noi con la ‘ ndrangheta non c’entriamo niente. Mi condannano solo perché sono di Cutro», urlò, furioso, davanti al tribunale.
Il calcio è ormai un ricordo lontano. Lontana è la vittoria dei mondiali, lontani i successi con la maglia della Juventus. Le gambe, dice, non corrono più, ma corre la testa, alla ricerca di una soluzione per una situazione «grave e infamante». E senza pietismi: «Non cerco un miracolo, non voglio la compiacenza di nessuno, che sia chiaro questo, voglio solo la giustizia, voglio la verità. Mio padre è in carcere per errore - conclude - e finché non ammetteranno la verità, ovvero che è estraneo a questa accusa, la mia voce non smetterà di urlare la sua innocenza».