Alfredo Cerruti è una splendida domanda su cosa siamo davvero. Ci mostriamo con naturalezza, o il pudore è ancora dominante, nell’era dell’eterna connessione? Viene da chiederselo perché a Napoli, almeno a Napoli, ci sono due miti identitari nascosti: uno consapevole, l’altro del tutto inconfessato. Il primo è Massimo Troisi, l’antipartenopeo. A Napoli siamo teatrali, chiassosi, appassionati, entusiasti, invadenti. Massimo Troisi è solo appassionato, poi però è afasico, irresoluto e timido. Nessuno si sogna di mascherarsi da Troisi, però tutti noi napoletani siamo orgogliosi di lui: rende giustizia ai caratteri meno debordanti, dà diritto di cittadinanza a chi sfugga al cliché tradizionale. Poi c’è Cerruti, Cerruti Alfredo classe 1942, scomparso domenica a Roma, casa sua da molti anni. Discografico e produttore, si legge nelle biografie pudiche. Nessuno riporta subito l’unica qualifica che gli spetta: genio. Cerruti è un genio. E ha lasciato un segno, lui e i suoi Squallor, dal primo disco semiclandestino, intitolato semplicemente Troia — col disegno delle mura di Priamo in fiamme, ovviamente — fino al più noioso, come titolo, Cambia-mento, che era un gioco di parole e aveva un disegno ancora più bello, ma censurato: la faccia di Bossi che in effetti nel mento a doppia punta ricorda i maschi disegnati sui metrò di nanniniana memoria, canzonato dagli Squallor nel loro ultimo disco, anno 1994, in piena avanzata del secessionismo antiterrone. In mezzo, Cerruti, nel mentre faceva soldi, carriera e successo fra la Cgd (casa discografica milanese di cui era direttore artistico) e le geniali prove da autore tv culminate nel “Volante uno a volante due” di Indietro tutta, mentre faceva questo e aveva in sorte una famosa relazione con Mina, in mezzo a tutti questi fuochi di capodanno il nostro Cerruti ha trovato il tempo di dare alle stampe, con Giancarlo Bigazzi, Totò Savio e Daniele Pace, altri 12 album degli Squallor: Palle, Vacca, Pompa, Cappelle, Tromba, Mutando, Scoraggiando, Arrapaho, Uccelli d’Italia, Tocca l’albicocca, Manzo e Cielo duro (anche qui c’è un gioco di parole). Varrebbe la pena di parlare di loro, dei nostri Fab Four, ma anche no. Non è questo il giorno, non è questo il soggetto, a 48 ore dal lutto per la perdita del genio Alfredo Cerruti. Perché sia chiaro: per chi scrive, Cerruti è stato un padre spirituale, e con lui lo sono stati il meraviglioso Totò, il nostro fratello di mille bevute immaginarie Daniele e il genio invisibile Giancarlo. Chi scrive li considera numi tutelari, e come lui la pensano alcune centinaia di migliaia di pazzi in giro per l’Italia, che oggi hanno età variabili fra i 30 e i 70 anni. Perché ecco, per rispondere al quesito iniziale, non è il caso di raccontare la “musica” degli Squallor, bastano i titoli degli album. Perle assolute, ma appunto qui si tratta di Alfredo, delle sue frasi smozzicate come le sigarette avvolte nel whisky che lo nascondevano sul balcone mente Arbore e gli altri attendevano seduti in salotto i suoi lampi di genio per la trasmissione del giorno dopo. Cerruti smozzicato, volgare, impietoso, e soprattutto profeta del disincanto. Il nostro profeta, i suoi “vafangul”, “m’’e sfrantecat ’o cazz”, la sua immunità al dolore, alle sofferenze sentimentali, il suo disimpegno ideologico, la sua distanza dai menatorrone, come li chiamava Gianni Brera. Tutto questo ci è entrato sotto la pelle, a me, a Vladimiro, a Luca, a Pierangelo, ad Andrea, a Massimo, a Fabio, e potrei farvi i nomi di cento amici che pensano le stesse cose, e ciascuno di loro potrebbe farvene altri cento, e vedete se non arriviamo al milione. Cerruti ci ha insegnato il distacco, dalle delusioni d’amore e dalla presunzione di sé, una scanzonataggine mai esagerata, allegra ma non troppo, la satira verso la politica e i potenti sfacciata al punto da essere inattaccabile. Nella Marcia dell’equo canone parla dell’Avvocato Agnelli con allusioni ben oltre i limiti della querela, in un disco successivo si ferma un centimetro prima “o si no perdimm ’n’ata causa”. Ma non va mai a fondo, non è mai politicamente esplicito. E cosa c’entra tutto questo con Napoli e con Troisi? C’entra eccome, perché Cerruti interpreta alla perfezione la borghesia non illuminata ma colta, l’avanguardia vitale ma politicamente disimpegnata. Spiega molte cose, spiega perché tanti napoletani brillanti abbiano scelto di fare fortuna lontano da casa, e perché oggi la classe dirigente partenopea sia fenomeno residuale. È una diserzione sottile, un distacco dell’anima dalle cose serie, tutto immerso nella consapevolezza che quelle serie davvero quasi mai finiscono sui giornali. Cerruti ha tenuto alta la bandiera del disincanto a colpi di parolacce “sfasteriate”, che è un aggettivo via di mezzo tra svogliate e infastidite, ci ha dato identità. Solo che diversamente da Troisi, ce lo nascondiamo. Chi di noi, in un’occasione sociale impegnativa, confessa di aver appreso l’arte dell’atarassia esistenziale grazie alle maleparole delle canzoni degli Squallor e di Alfredo Cerruti? Nessuno. Ma vi assicuro che è così, per tantissimi di noi, e non solo a Napoli. “Sembra ieri che stavi qui! Dove sei oggi? Dove sei oggi? All’aldilà, all’aldiqua... Statt bbuon, ci vediamo in paradiso. Si esiste, e si no che ce ne fotte a nuje... nun ce verimm cchiù... è quello, che mi dispiace”. (Concettina Tramortato in“Tombeado”, dall’album Mutando, edizioni Cgd, 1981, di Pace-Bigazzi-Savio, voce di Alfredo Cerruti)