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Roma, 28 nov. (Labitalia) - Tra disoccupati e scoraggiati si contano quasi 5 milioni le persone da inserire nel mercato del lavoro italiano, che diventa sempre meno efficiente per un problema di matching tra domanda e offerta di lavoro in continuo peggioramento. Il disallineamento crea un apparente paradosso: quando aumenta la disoccupazione, non diminuisce la difficoltà a reperire le figure professionali richieste dalle imprese. Lo rivela la nuova indagine di Randstad Research, che ha analizzato il mancato incontro tra domanda e offerta nei diversi settori e territori, identificando per la prima volta gli spostamenti della 'curva di Beveridge', lo strumento che permette di analizzare l’efficienza dei diversi mercati del lavoro misurando la variazione percentuale del tasso dei posti vacanti al variare della disoccupazione. La ricerca - presentata oggi a Roma presso la sede del Cnel - evidenzia come nella doppia crisi vissuta dall’Italia tra il periodo 2005-2009 e 2015-2019, la 'curva di Beveridge' abbia mostrato un forte peggioramento con aumento sia del tasso di disoccupazione che dei posti vacanti, arrivando a un punto di rottura dal quale tuttora non ci siamo ristabiliti. Passato il periodo Covid (con il blocco dei licenziamenti), la ripresa del lavoro 2022 ne sconta l’eredità: mentre diminuisce il tasso di disoccupazione (che resta comunque alto), continua a crescere il numero di offerte di lavoro scoperte. Oggi, ogni 100 disoccupati in meno si contano mediamente 24 posti vacanti in più. “Le cause strutturali dei colli di bottiglia del nostro mercato del lavoro - commenta Daniele Fano, coordinatore del Comitato scientifico di Randstad Research - sono diverse: ci sono aspetti retributivi, demografici, sociali, ma soprattutto l’inadeguatezza di percorsi formativi poco orientati alle professioni richieste dal mercato e non al passo con l’innovazione tecnologica. E poi la natura della nostra disoccupazione, di lungo periodo, con oltre metà delle persone in cerca di lavoro in Italia disoccupata da più di un anno." "La storica debolezza delle politiche del lavoro - dice - relega troppi giovani, donne in età lavorativa, uomini vicini all’età della pensione tra gli inattivi ed esaspera il paradosso di un’elevata difficoltà di reperimento delle figure professionali desiderate da parte dei datori di lavoro, per non parlare dei tanti attivi che hanno scelto invece di far carriera all’estero. Una vera svolta può arrivare dal Pnrr, che investirà importanti risorse in questi ambiti, ma il cui sforzo andrebbe decuplicato per poter risolvere pienamente la situazione". A fine 2021 si contavano 2,3 milioni di disoccupati. Ma esiste un’altra porzione di popolazione non occupata, che sarebbe disponibile a lavorare anche se un lavoro non lo cerca: gli scoraggiati inattivi che hanno rinunciato a cercare un impiego, ben 2,5 milioni. Sommati, stima Randstad Research, si contano ben 5 milioni di persone da coinvolgere nel mercato del lavoro, tra cui molti giovani, donne e esodati. Analizzando la distribuzione territoriale, in tutte le regioni del Mezzogiorno gli scoraggiati predominano sui disoccupati, con le quote maggiori in Basilicata e Molise, dove la percentuale raggiunge il 70,9% e il 65,9%. Una delle motivazioni che hanno portato la curva Di Beveridge italiana a peggiorare nel periodo 2005-2009 e 2015-2019, evidenzia Randstad Research, è la disoccupazione di lunga durata, che causa una de-professionalizzazione dei profili. Seppure allineata alla media Ocse nella classifica di disoccupazione tra 6 mesi e un anno (15% nel 2020), l’Italia è al primo posto per disoccupati da più di 6 mesi, quasi il 70% del totale delle persone senza lavoro, più del doppio della media (33%). Alla fine del 2021, il 49% dei disoccupati italiani non lavorava da meno di un anno, il restante 51% da più di 12 mesi. Il 20,4% dei disoccupati lo è da più di 3 anni. Ma sono forti le differenze regionali: i disoccupati oltre i 30 mesi sono concentrati in alcune regioni del Sud. Un modello econometrico elaborato da Randstad Research per analizzare la capacità di assorbire gli shock della disoccupazione e il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione regione per regione evidenzia il divario tra Mezzogiorno e le altre regioni. Trentino-Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia mostrano la maggiore efficienza nel rapporto domanda-offerta di lavoro, considerato la media del tasso di disoccupazione e del tasso dei posti vacanti nel periodo 2015-2019 (è più efficiente il mercato del lavoro che riesce a combinare un livello più basso di disoccupazione con un livello contenuto di posti vacanti). È in grave ritardo, invece, il Mezzogiorno, con Calabria e Sicilia in coda alla classifica del rapporto disoccupazione/posti vacanti. Più nel dettaglio, la classifica di efficienza dei mercati del lavoro regionali evidenzia un gruppo di testa, composto da Trentino-Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Toscana, un gruppo intermedio con Piemonte, Marche, Liguria, Umbria, Lazio e Abruzzo, e poi le regioni più in difficoltà, Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. Ma ci sono anche profonde differenze tra i settori. Confrontando il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione, si evidenziano in particolare due casi, quello dell’informatica, dove troviamo scarsissima disoccupazione ma grande difficoltà di reperimento, e quello della ristorazione, dove insieme a una difficoltà di reperimento si associata elevata disoccupazione. Anche i settori possono dividersi in 3 gruppi sulla base dell’efficienza del relativo mercato, in base al rapporto tra tasso di disoccupazione e posti vacanti. I più efficienti sono cave e miniere, fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, attività finanziarie, acqua e rifiuti, servizi di informazione e comunicazione, attività artistiche, sportive di intrattenimento e divertimento. Poi vengono gli altri servizi, trasporto, attività professionali scientifiche e tecniche, sanità e assistenza sociale, noleggio agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese. I comparti meno efficienti sono industrie manifatturiere costruzioni, attività dei servizi di alloggio e ristorazione, commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli. Per risolvere i problemi di matching, è fondamentale che i lavoratori acquisiscano le competenze che servono alla domanda. Prima di tutto quelle abilitanti (linguistiche e di calcolo in primis), poi quelle specialistiche e trasversali. Da un esercizio di correlazione tra i tassi di disoccupazione regionali e i risultati dei test Invalsi, emerge un significativo rapporto inverso: dove la disoccupazione è più alta, i test Invalsi evidenziano i risultati peggiori. Le cause sono da studiare, ma evidentemente esiste un circolo vizioso che lega le basse competenze dei giovani al contesto occupazionale di appartenenza. "Il rilancio delle politiche attive contro l’abbandono scolastico, il recupero dei Neet, la formazione dei disoccupati e degli inattivi - spiega Daniele Fano - sono alcune leve da cui ripartire per facilitare le transizioni occupazionali, migliorare l’occupabilità dei lavoratori e innalzare il livello delle tutele attraverso la formazione".