È scontro aperto nel Pd dopo il voto in commissione Giustizia al Senato sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Voto che sta portando a galla la spaccatura tra parlamentari e dirigenti dem, da un lato, e amministratori locali dall’altro, i quali più volte hanno manifestato il loro disappunto per un reato giudicato «inutile e talvolta dannoso». E ora che è un governo di destra a volerne l’abolizione, i nodi vengono al pettine.

Da una parte pezzi da novanta del partito, da Walter Verini ad Andrea Orlando, dall’altro sindaci del calibro di Matteo Ricci, Matteo Biffoni e Giorgio Gori. Per i primi è tutto sotto controllo, il partito è coeso, la linea è chiara: contrari all’abolizione, favorevoli a una limatura del reato come già avvenuto nel 2017 e nel 2020.

«Quanto accade con la legge Nordio è inquietante - scrive Walter Verini, segretario Pd della commissione Giustizia - Con la scusa, illusoria, di tutelare gli amministratori (che saranno sempre esposti, perché il tema non è l’abuso d’ufficio, ma le responsabilità che ricadono impropriamente su di loro) la destra cancella del tutto questo reato, dando spazio a comportamenti illeciti, favoritismi, condoni penali a condannati definitivi, ignorando i richiami di ANAC, di tutta la Magistratura e di quella impegnata nell'Antimafia».

E se c’è chi, con la garanzia dell’anonimato, parla del sindaco di Pesaro Matteo Ricci come di un «giapponese che porta avanti la sua battaglia, ma ormai lo fa in solitudine», a dare manforte al primo cittadino marchigiano è Matteo Biffoni, sindaco di Prato e presidente di Anci Toscana. «Ricci combatte da solo? Ma quando mai, come minimo siamo in due, ma vi assicuro che siamo molti di più - spiega Biffoni al Dubbio - La vera differenza è tra chi sta in Parlamento e chi in trincea nei Comuni: la posizione del Pd espressa in Parlamento diverge dalla stragrande maggioranza della sensibilità degli amministratori». Biffoni si definisce «un Ricci al quadrato» e si dice favorevole alla cancellazione dell’abuso d’ufficio. «Così com’è non funziona e, se non lo cambi, meglio toglierlo - aggiunge - Il mantenimento dello status quo non ha senso».

D’accordo il primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori, che parla di «confronto molto franco all’interno del Partito democratico» sul tema. «Io rispetto la posizione dei nostri parlamentari, ma condivido l’opinione della grande maggioranza dei sindaci del Pd, che per anni si sono battuti per l’abrogazione del reato, che nella sua indeterminatezza ha il suo principale limite -spiega Gori - A tutelare i cittadini ci sono molte altre norme penali che definiscono e puniscono con precisione i singoli reati contro la Pubblica Amministrazione: corruzione, peculato, turbativa di appalti, omissione di atti d’ufficio, ed altri».

Secondo Gori «più di 5 mila persone che hanno visto compromessa la loro reputazione, senza motivo. Penso, su tutti, ai colleghi Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, a Giuseppe Falcomatà, primo cittadino di Reggio Calabria, entrambi persone innocenti passate attraverso anni di sofferenza e di accuse ingiuste».

Posizione intermedia quella del sindaco di Firenze, Dario Nardella. «Se mi viene detto che o si mantiene questa norma così com’è, inefficiente e limitativa per il lavoro dei sindaci, oppure si cancella, io sono costretto a dire che preferisco non averla - ragiona Nardella - Ma se mi viene data la possibilità di riscriverla anche in toto chiarendo nettamente cosa può fare e non può fare un sindaco senza rischiare ogni volta un’indagine allora preferisco una controproposta».

La risposta, in ogni caso, arriva dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, secondo il quale «sbagliano quei sindaci di sinistra che chiedono di cambiare la legge per la paura della firma». Orlando parla di «errore politico grave» perché «riconfigurare l’abuso d’ufficio è esercizio opportuno, cancellarlo rischia di creare anche per i sindaci ancora più problemi di quanti ne risolverà» e «saranno i sindaci dei prossimi decenni a pagare l’errore di valutazione fatto oggi».

Un dialogo tra sordi, insomma, che va tutto a vantaggio della maggioranza e che testimonia uno scollamento evidente tra il Nazareno e la base locale del partito.