Sulla soglie delle urne un solo elemento accomuna quasi tutte le forze politiche: una robusta irritazione nei confronti del capo dello Stato. Nessuno si illude, nonostante gli sforzi dii media che quando c’è di mezzo il Colle gareggiano da sempre in ossequiosità, che la trovata della lista dei ministri di un ipotetico governo Di Maio sia un innocuo gioco di società e neppure che una mossa simile sia stata possibile senza almeno una tacita acquiescenza di Sergio Mattarella.

Il presidente però ha le sue ottime ragioni per voler intavolare a ogni costo un costruttivo dialogo con M5S. L’ipotesi su cui il Colle come quasi tutti i poteri costituiti puntavano, quella di un governo Pd- Fi si è dissolta nel corso della campagna elettorale. La vittoria della destra, meno gradita ma pur sempre garanzia di stabilità, appare un po’ meno improbabile ma neppure davvero a portata di mano, senza contare il crescente e certo non apprezzato peso di Salvini in quella compagine. Eliminate queste due strade, qualsiasi altro tentativo di risolvere la crisi passa per un semaforo verde di M5S: lisciargli il pelo è d’obbligo Mattarella ha diverse carte da giocare, non alternative tra loro ma al contrario cumulabili.

GOVERNO DEL PRESIDENTE

E’ la carta di riserva quando non è possibile dar vita a una maggioranza politica. Il premier sarebbe indicato direttamente dal capo dello Stato e le forze politiche deciderebbero se appoggiarlo o meno col voto di fiducia senza dover per questo costituire una vera maggioranza politica. E’ stato il caso del governo Monti, sostenuto da forze che erano e intendevano restare antitetiche tra loro. In realtà è a un governo di questo tipo che allude Piero Grasso quando dichiara che LeU sarebbe pronta a votarlo. Sulla carta il premier indicato da Mattarella potrebbe essere un Paolo Gentiloni definitivamente svincolato da Renzi. Ma non è facile che i 5S accettino un primo ministro che hanno strenuamente avversato nella precedente legislatura. La testa del conte potrebbe essere il prezzo per avviare un governo del presidente.

GOVERNO DI SCOPO

Un governo di fatto privo di maggioranza politica non può ambire a prolungare la propria esistenza per l’intera legislatura. Deve darsi un obiettivo preciso il cui raggiungimento coinciderebbe con la fine del governo e della stessa legislatura, a meno che nel frattempo non siano maturate le condizioni per una reale maggioranza politica. Lo scopo del governo del presidente, in questo caso, sarebbe modificare la legge elettorale, evitando così il rischio di dover ricorrere a nuove elezioni che potrebbero finire allo stesso modo. E’ sempre il modello a cui ha alluso Grasso e sulla carta sostenerlo sarebbe questione di puro buon senso. Il guaio è che in Italia nessuna meta è più proibitiva del definire una legge elettorale e che i parlamentari avrebbero tutto l’interesse a rallentare il più possibile la marcia prolungando così la loro permanenza in Parlamento.

Il modo per ovviare a questo inconveniente, che potrebbe rivelarsi proibitivo, sarebbe affidare in qualche modo proprio a M5S le ' chiavi' della sopravvivenza della legislatura, affidandogli sia la presidenza di una delle Camere sia quella delle commissioni incaricate di modificare in tempi relativamente brevi la legge elettorale.

GOVERNO TECNICO

Un governo del presidente non deve affatto essere necessariamente tecnico, anche se una massiccia presenza di tecnici al suo interno è fisiologica. In questo caso però la natura tecnica dell’esecutivo potrebbe essere determinante. M5S infatti molto difficilmente potrebbe accettare la presenza di ministri ' compromessi' con i precedenti governi o con i partiti di governo, e tantomeno spedire i propri esponenti al loro fianco. Una squadra di ministri tecnici decisi dal premier su discreta indicazione delle forze politiche, come di fatto avvenne col governo Ciampi nel 1993, permetterebbe di uscire dal vicolo cieco.

GOVERNO DI MINORANZA

Anche così non è affatto detto che i partiti anti- sistema, M5S e Lega, accetterebbero di concedere un voto di fiducia che li esporrebbe all’accusa di traffici politicanti agli occhi dei loro elettori, e un discorso siile, magari per motivi diversi, vale anche per molte delle altre forze politiche. La formula della non- sfiducia, consistente nel far passare un governo senza concedergli la fiducia ma permettendogli di ottenere una maggioranza relativa con l’astensione alla Camera e l’uscita dall’aula al Senato 8dove l’astensione equivale a voto negativo) non solo risparmierebbe ai 5S, e forse anche ai leghisti, un coinvolgimento diretto ma gli consegnerebbe le sorti della legislatura, perché potrebbero sempre trasformare l’astensione in voto contrario e indebolirebbe l’esecutivo, forzandolo a mantenersi essenzialmente nei limiti dello scopo prefissato.

Ciascuna di queste formule è già stata sperimentata dall’Italia. I governi Ciampi e Monti sono stati entrambi governi tecnici e il primo è stato anche a tuttigli effetti un governo di scopo, con la missione appunto di definire una legge elettorale dopo il referendum che aveva abbattuto il proporzionale. Entrambi i governi sono stati tecnici, anche se in misura diversa: i ministri erano stati indicati a Ciampi dai partiti che lo sostenevano, mentre Monti li ha scelti da solo, o tutt’al più consultandosi con il presidente Napolitano. Il governo Andreotti del 1976, con un Parlamento nell’impossibilità di esprimere una maggioranza, era a propria volta un governo della non sfiducia, cioè di minoranza.

Se mai le quattro caratteristiche dovessero sommarsi, M5S permettendo, sarebbe la prima volta che il poker si completa. Sarebbe forse un’opportunità per uscire dal labirinto. Sarebbe di certo anche un be rischio.