È nella natura delle cose, è nella forza dei fatti allineati nella sua storia personale che il nome di Mario Draghi circoli insistentemente, rilanciato dai media non solo italiani, per un ruolo prossimo venturo a Bruxelles.

Per quanto tutti i suoi più recenti interventi, compreso l’ultimissimo discorso a La Hulpe in Belgio, si attengano al mandato di special rapporteur in materia di concorrenza conferitogli a suo tempo da Ursula von der Leyen - che aveva contestualmente dato il medesimo incarico ma in materia di mercato unico ad Enrico Letta - i boatos mediatici lo hanno immediatamente e ripetutamente indicato come possibile futuro presidente della Commissione Ue.

E a poco sono valse le improvvide smentite sfuggite alla signora Draghi («Mario non andrà mai a Bruxelles, i politici lo odiano» ) inciampata mentre usciva di casa a Milano in un cronistaccio del Foglio, solo un paio di settimane fa.

Perché sono la stima, la credibilità, il peso specifico di Draghi a collocarlo naturaliter in Europa: il luogo - quasi un asilo politico - cui sono da sempre destinate le uniche vere leadership di cui l’Italia disponga. Nemo propheta in patria, certo, ma spesso anche con la perfetta contrarietà delle leadership al potere a Roma. Un elenco stringatissimo, nel quale si può inserire anche lo stesso Enrico Letta, e prima ancora Romano Prodi e Giuliano Amato.

Il profilo di Mario Draghi poi, al netto dei vistosi errori di valutazione, comunicazione e tattica politica che a suo tempo gli hanno sbarrato la strada per il Quirinale, ha caratteristiche che lo collocano nell’attuale contesto come un tassello cruciale per tentare di risolvere il puzzle in cui siamo immersi: la competenza in materie finanziarie, con relative relazioni internazionali dagli anni lontani in cui esordì alla World Bank in quel di Washington fino a quelli recenti nei panni di salvatore dell’euro dalla postazione al vertice dell’Eurotower di Francoforte, in un momento in cui la fase post- pandemia e le guerre in atto tengono l’eurozona inchiodata a soglie risibili di crescita economica.

Il provato atlantismo, sin dall’epoca della sua formazione accademica, che avvenne all’Mit di Boston con Franco Modigliani (per quanto poi in seguito Mario Draghi abbia dirazzato dalla stretta teoria keynesiana), che ne farebbe l’interlocutore perfetto, quasi una primaria interfaccia di tutto quel che si muove Oltreatlantico, a cominciare ovviamente dalla Federal Reserve. I venti di guerra alle porte dell’Europa, e per via dei quali il Vecchio Continente dovrebbe attrezzarsi per la propria autodifesa, smettendo di delegarla al Lord protettore statunitense: una vera Difesa comunitaria - che per ora è solo by the way - e una conferma del sostegno all’Ucraina nella sua resistenza all’invasore putiniano, dato anche che Kyev è ai confini della Ue, e resta al momento ancora in forse la conferma al Congresso del sostegno militare e finanziario americano. Draghi lo ha scandito con chiarezza: «Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza dobbiamo intensificare gli appalti congiunti, aumentare il coordinamento della nostra spesa e l’interoperabilità delle nostre attrezzature, e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali».

Si tratta, anche nei casi appena citati, di far fronte «al mondo che sta cambiando rapidamente e che ci ha colti di sorpresa», mentre «ci manca una strategia per garantirci di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze», come ha detto ieri l’altro Draghi riferendosi alla competitività della Ue.

Ma attenzione: se «è di un cambiamento radicale» che la Ue ha bisogno, e un cambiamento «non meno ambizioso di quello operato dai padri fondatori 70 anni fa», sempre per citare le parole di Draghi, il ruolo possibile alle viste non è quello di successore di Ursula von der Leyen: è quello di presidente del Consiglio Europeo.

Perché il nome del presidente della Commissione è frutto di accordi politici strettamente connessi ai risultati delle elezioni europee, in agenda come è noto per il prossimo giugno, ed è assai poco probabile che il Ppe - che uscirà comunque dalle urne come il gruppo più forte voglia davvero fare di un “tecnico” il proprio candidato- bandiera.

Ma soprattutto perché, stanti le attuali regole europee, è nel Consiglio dei capi di Stato e di governo che risiede il vero potere. Non a Palazzo Berlaymont, dunque, ma nel consesso dei 27 che hanno il potere decisionale.

Chi presiede il Consiglio detta l’agenda. Un ruolo cruciale, come capì anche Matteo Renzi, che da Palazzo Chigi sbarró il passo per quel ruolo ad Enrico Letta. E una volta stabilita l’agenda delle principali e inderogabili issue, Draghi ha anche l’autorevolezza che porta alle soluzioni: gliela riconoscevano tutti, nemici compresi, già quando a quel Consiglio partecipava da “semplice” primo ministro italiano.