Sei mesi per rifare l’Europa, è il biglietto da visita (in verità un po’ sfuocato: ok i 180 giorni, ma per fare cosa?) con il quale Renzi e Hollande si sono presentati dalla Cancelliera Merkel per un consulto sulle spoglie ancora fumanti della Brexit. Solo che il premier italiano di mesi ne ha appena la metà. Rispetto ai suoi interlocutori, infatti, Renzi è quello più a rischio: a ottobre si vota il referendum costituzionale, ed il pericolo da evitare è che si ripeta il bis del “leave”. Un imperativo che non riguarda solo Roma, ma che ha valenza continentale. Dopo Cameron, è evidente che se cade anche Matteo a quel punto l’edificio europeo perderebbe il proprio equilibrio in maniera irreversibile.Scatterebbe il si salvi chi può per allontanare lo spettro di reazioni a catena alle presidenziali francesi e alle elezioni politiche in Germania.Dunque il presidente del Consiglio, al di là degli esiti del Direttorio e poi del vertice a 27, è fortemente consapevole che un pezzo decisivo del suo futuro politico si gioca sul tavolo europeo. In altri termini, in tre mesi Renzi deve dimostrare agli italiani che è meglio che sulla poltrona di palazzo Chigi resti lui invece che un altro: sia “istituzionale” come il presidente del Senato Pietro Grasso in caso di vittoria del No; sia anti-sistema come un esponente grillino nell’eventualità di nuove elezioni a breve. Poi, sempre in vista della consultazione popolare d’autunno, ci sarebbe da svellere il convitato di pietra: la riforma elettorale. Vale o no la pena cambiarla?Andiamo per ordine. Il futuro dell’Europa è il terreno principale su cui si gioca il risultato referendario, ma è anche il più scivoloso. E’ evidente che se anche dopo l’estate il vento anti-establishment che ha schiantato il governo conservatore inglese, fatto vincere i Cinquestelle a Roma e Torino e trionfare Farage continuerà a soffiare, per Renzi non c’è scampo. Vero è che i risultati spagnoli hanno attutito la bufera Brexit: ma solo flebilmente, lasciando comunque la Spagna priva di un baricentro governativo efficace. Con il rischio, al dunque, che tra pochi mesi Madrid sia costretta a tornare alle urne. Anche l’eventualità di grande coalizione Popolari-Socialisti senza Podemos, da molti indicata come unico sbocco possibile, non è che porti granché acqua al mulino renziano: primo perché rifare il Nazareno pare impossibile visto che Berlusconi, almeno al momento, è ben saldo nella trincea del No; secondo perchè l’accordo tra forze politiche tradizionali si è finora dimostrato il carburante migliore per far rombare i consensi dei motori elettorali dei Cinquestelle.E dunque si torna al punto iniziale: l’Europa. Per presentarsi a ottobre con una legge di Stabilità espansiva e non lacrime e sangue, il capo del governo italiano deve ottenere un cambiamento a 180 gradi dell’orientamenrto tedesco. Meno, per capirci, non servirebbe: infatti o la prospettiva dello sviluppo si sostanzia con messe di investimenti in grado di far riprendere quota all’asfittico indice di crescita italiano offrendo anche risorse per un corposo taglio fiscale, oppure una manciata di “zerovirgola” lascerebbero le cose come stanno e praterie piuttosto vaste alle incursioni di grillini e centro-destristi.Riuscirà Renzi a smuovere la Merkel? Non ci si può aspettare grande aiuto da Hollande: da tempo in caduta verticale di consenso, oggi è più il presidente francese ad avere bisogno del collega Pse piuttosto che il contrario. Il compito è difficile. Però paradossalmente proprio la Brexit offre a Renzi un’arma in più: dopo l’addio di Londra, mai come oggi l’Italia è too big too fail. Renato Brunetta, maliziosamente, ha alzato l’asticella all’inverosimile: «Renzi deve chiedere alla Germania che reflazioni». Arrivare fin lì è impossibile. Però che Berlino diventi parecchio più morbida sul rigore questo non solo è auspicabile: per Renzi è obbligatorio.Sistemata - si vedrà se e come - la parte extra confini, si apre il capitolo tutto interno il cui titolo è semplice: Pd. Per recuperare frotte di scettici, la richiesta che arriva da vari settori e per ultimo anche da Walter Veltroni, è di cambiare l’Italicum prima del passaggio referendario. A qual fine: per abbracciare un meccanismo proporzionale che è in controtendenza non solo con la narrazione renziana ma anche con la storia politica italiana degli ultimi 25 anni? Oppure per stabilizzare un modello tripolare che l’inquilino di palazzo Chigi ritiene farlocco? Lorenzo Guerini, sempre più fedelissimo interprete del pensiero renziano, prende la palla al balzo: «Quanto accaduto in Spagna dovrebbe indurre a qualche riflessione. L’Italicum garantisce rappresentanza e governabilità». Ma il punto non è neanche questo. Se infatti, come assicura proprio Veltroni, i voti Cinquestelle possono essere riassorbiti dal Pd (e per quota parte anche da FI), che senso ha favorire il tripolarismo? L’obiezione è che con l’Italicum le possibilità di vittoria dei pentastellati si accrescono esponenzialmente. Forse. Ma se si alimenta la sensazione che la legge elettorale viene modificata per paura di perdere, non si favoriscono gli stessi che ci si propone di battere? In fondo con il Porcellum è andata esattamente in quel modo: il leghista Calderoli si inventò la sua “porcata” per impedire al centrosinistra di prevalere. Risultato: Romano Prodi vinse lo stesso e la Corte costituzionale, in tempi successivi, dichiarò la riforma incostituzionale in più parti.