Nel Paese di Machiavelli, c’è pure chi arriva a ipotizzare che le quasi- dimissioni del presidente del Consiglio Mario Draghi possano nascondere altre reali intenzioni, che possano essere un gran teatro per rimanere a Chigi più forte di prima.

Whisfull thinking, scambiare il desiderio per realtà: i tre giorni di qui al discorso alle Camere - non si sa ancora se seguito dal voto di fiducia saranno lunghi, e molto travagliati. Tre giorni che davvero potranno cambiare - in molto peggio il volto del Paese.

Ma intanto non si può non rilevare quel che di inedito, di fortemente inusuale, c’è stato nella giornata di giovedì e che ha l’effetto di rivelare fino a che punto Draghi sia un marziano a Palazzo, per dirla con Ennio Flaiano. Sia dal governo che dal Quirinale hanno smentito che vi siano state «incomprensioni» tra i due presidenti, e ci mancherebbe pure che le Alte Cariche e i loro collaboratori lasciassero dilagare voci di dissidi.

Ma, al di là dei rumours, basta mettere in fila i fatti per capire che ieri è stata la giornata campale delle sgrammaticature istituzionali. E va detto subito che esse non sono cavilli per azzeccagarbugli, poiché le procedure contengono l’essenza, il senso stesso del funzionamento democratico.

Dunque, dopo il voto in Senato, nel quale Draghi verifica che almeno numericamente pur con l’astensione dei grillini ha una maggioranza e pure piuttosto solida, il presidente del Consiglio si reca dal presidente della Repubblica. Ne esce dopo un’ora di colloquio, e le agenzie di stampa riferiscono questa frase: «Non mi sono dimesso, sto riflettendo». Sono le 17,58. Viene convocato il Consiglio dei ministri per le 18,15 ( poi slitterà alle 18,38). Lí Draghi annuncia le sue dimissioni, spiegando per filo e per segno - come viene immediatamente fatto trapelare, in una sorta di vero e proprio statement - le motivazioni. Aggiunge che riferirà alle Camere ( informativa, è la parola che usa) mercoledì prossimo. Poi, alle 19,15, sale nuovamente al Colle per dare le proprie dimissioni a Mattarella. Alle 19,49 un comunicato del Quirinale informa che Mattarella ha respinto le dimissioni.

Naturalmente è ragionevole presumere (e infatti tutte le cronache giornalistiche ne parlano) che in quella prima ora di colloquio con Draghi, Mattarella possa aver quantomeno percepito l’intenzione di dimettersi di Draghi. Ma uscire dal Quirinale facendo sapere in buona sostanza «non mi sono dimesso sto riflettendo» e annunciare invece ai ministri neanche una mezz’ora dopo formali e motivate dimissioni, è molto più che inusuale. C’è stata un’oretta buona in cui è facile immaginare che al Quirinale non si riuscisse a discernere cosa diavolo stesse accadendo.

È vero che per prassi il capo del governo preannuncia ai suoi ministri che ha intenzione di lasciare, poco prima di rimettere il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica. Ma se guardiamo la concatenazione dei fatti, la comunicazione ai ministri - e in maniera cosi ferma e dettagliata - della volontà di dimettersi è avvenuta nel momento in cui al Colle sapevano (da Draghi) che stesse riflettendo: è questa la sgrammaticatura istituzionale. E, a volerla dire tutta, anche qualcosa in più: uno sgarbo al principale potere del Capo dello Stato. Che è - e figurarsi nei passaggi di nascita e crisi dei governi- la moral suasion.

Per questo, e non solo per evidenti ragioni di approccio alla crisi ormai dispiegata, Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni di Draghi. Un gesto che certo è nella disponibilità del Capo dello Stato, ma che è anch’essa abbastanza inedita, nel suo piglio einaudiano. Quasi un riappropriarsi del proprio ruolo, a termine di Costitizione.

In più - e anche questo prontamente derubricato a “confusione comunicativa”- il presidente del Consiglio aveva annunciato ai suoi ministri (e lasciato trapelare alle agenzie di stampa) che avrebbe riferito in Parlamento. Quando inviare un governo e il suo capo alle Camere è una precisa prerogativa del presidente della Repubblica (e infatti il Quirinale ha messo poi bene in chiaro nella nota ufficiale di fine serata di aver «invitato il presidente del Consiglio a presentarsi in Parlamento»).

Dobbiamo qui chiarire che naturalmente Sergio Mattarella non è uomo da scomporsi davanti a mosse irrituali - e che da altri presidenti sarebbero stati invece presi forse come vere offese. Ed è vero che Mario Draghi, ormai a Palazzo Chigi da oltre un anno, ha trascorso tutta la sua gloriosa vita professionale dentro altri riti e altri schemi mentali. Ma i passaggi procedurali sono il cuore del buon funzionamento delle istituzioni, in democrazia. Possibile che a una personalità di tale livello nessuno a Palazzo Chigi abbia potuto dare qualche consiglio? Non è cosa di secondo piano perché il rischio è di dare l’impressione, oltre a una certa “confusione comunicativa”, che non si conoscano bene i confini dei propri poteri. E di quelli altrui, soprattutto. Il che è, per una personalità del calibro di Mario Draghi, davvero incomprensibile. Di più: un peccato.